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Wednesday, May 29, 2013

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http://www.webalice.it:

'via Blog this'Creatività artistica. Per tal motivo è proprio la creatività, che si esprime in
ognuno di noi, ma in maniera differente, che diviene il soggetto pensante nel quale si riflettono
incommensurabilmente sia il dato di fatto che l espressione della creatività stessa. Nella prassi
ogni ricerca che vuole attribuirsi il crisma della scientificità, è obbligata al superamento di prove e
tentativi, inizialmente, imprevedibili. Di fatto è ciò che ribadisce l eminente semiologo Umberto
Eco3: La scienza moderna [ ] si fonda sul principio del fallibilismo (già enunciato da Peirce,
ripreso da Popper e da tanti altri teorici, e messo in pratica dai pratici) per cui la scienza procede
correggendo continuamente se stessa, falsificando le sue ipotesi, per trial and error (tentativi ed
errori), ammettendo i propri sbagli e considerando che un esperimento andato a male non sia un
fallimento, ma valga tanto quanto un esperimento andato bene, perché prova che una certa via che
si stava battendo era sbagliata e bisogna o correggere o ricominciare da capo. 4 e indubbio quindi
che la ricerca segua una via che, sotto il profilo matematico può essere definita come giroscopica
od auto-regolatrice attraverso quel metaforico asse di simmetria 5 che potremmo identificare
nello pseudonimo della verità scientifica. e anche ed ancora in dubbio che, all interno dell
1 Direttore del Master in Comunicazione della Scienza presso la scuola Internazione Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste-(Italia).
2 P. Greco, Eistein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma, 2002, Voce:teoria, pp. 525, 526.
3 Presidente della scuola Superiore di Studi Umanistici, Ordinario di Semiotica, Università di Bologna.
4 U. Eco, Provare e riprovare, in La bustina di Minerva, l Espresso , 29 luglio 2004.
5 La nuova Enciclopedia Garzanti delle Scienze, Garzanti, Milano, 1996, Voce: Giroscopio, p. 704.
3
itinerazione o dello svolgimento di ogni ricerca che segue un obbiettivo tematico, sia necessaria
pure una certa dose di Fortuna. Una Fortuna od un caso fortunato che, per induzione , sono in
grado di superare la perigliosità o l asprezza del cammino della ricerca stessa .Una Fortuna, o
meglio una Buona Fortuna, che si presenta quindi, in se e per se, come l attore inconscio che si
muove dietro le quinte di ogni palcoscenico esistenziale. Nei fatti, uno degli obiettivi di questa
ricerca, si spinge nel tentativo di fornire una definizione conscia o razionale del reale oggettivo
specifico nel quale si rispecchino le dinamiche trascendenti della ricerca stessa. Una trascendenza
legata chiaramente a quel risalire graduale dell intuizione inconscia od istintuale verso la coscienza
ed il reale. Una meta questa, nella quale il fenomeno si presenta infine in tutta la sua chiarezza.
Quindi il tentativo teso a raggiungere questa meta, o sintesi insita nel confronto interdisciplinare, si
protenderà verso il fine di operare l analisi del fattore inconscio ed imprevedibile della Fortuna. Un
fattore, che si presenta come un vero e proprio pregiudizio metafisico ,6 che ha come sua base la
nostra entità psicofisica o biosociale, secondo la delineazione teoretica einsteiniana. Un istinto,
quello dell elaborazione del pregiudizio metafisico , che si pone come base epistemologica per
ogni filosofia naturale, di cui proprio Albert Einstein è senza dubbio la figura più rappresentativa
ed eminente del XX sec. Le sue riflessioni epistemologiche, in quanto filosofo della natura e
filosofo della scienza, sono descritte ed enucleate nei contenuti del testo della conferenza Herbert
Spencer Lecture da lui tenuta ad Oxford il 10 giugno del 1933. I principi in essa contenuti
descrivono il cammino seguito al fine del raggiungimento di un obiettivo fin qui, anche da noi,
dispiegato. Questa conferenza costituisce indubbiamente, secondo il fisico Philipp Frank, la più
elegante esposizione dei suoi punti di vista circa la natura di una teoria fisica. L insieme
concatenato di concetti, principi e leggi esposti in tale contesto da Albert Einstein, è così tradotto e
compendiato dall eminente fisico Pietro Greco: Sono convinto, sostiene il fisico tedesco a mo di
premessa nella sua Herbert Spencer Lecture, che una realtà fisica oggettiva esista. Sono
pienamente convinto, inoltre, che esista anche una via corretta per giungere a conoscere la realtà
fisica oggettiva e, soprattutto, sono convinto che « noi siamo in grado di trovarla », quella via
corretta. Siamo in grado cioè di elaborare teorie che descrivano compiutamente la realtà oggettiva.
Nulla, in linea di principio, impedisce dunque all uomo di conoscere le leggi generali della natura e
di conoscere, in ogni suo aspetto, la realtà naturale oggettiva. La teoria scientifica non è altro che lo
strumento con cui lo scienziato tenta di afferrare la realtà oggettiva. Va da se che l impresa non è
affatto semplice. Perché non è possibile trovare quella strada (cioè elaborare una teoria fisica) per
induzione, attraverso l analisi dei fatti noti. Questi fatti sono così numerosi e, spesso, così confusi,
che c è il bisogno di filtri indipendenti e potenti per selezionarli e, correttamente, interpretarli.
Questi filtri, indipendenti e potenti, sono le teorie fisiche. Le teorie fisiche non sono scoperte di una
verità nascosta, ma libere creazioni della mente dell uomo. Intuizioni. Cosicché , il filtro
indipendente e potente che ci consente di interpretare i fatti per intuizione e, comunque, seguendo
una logica mai induttiva ma sempre ipotetico-deduttiva (deduzione), altro non è che una visione del
mondo. Un pregiudizio metafisico. Noi intuiamo ed elaboriamo teorie fisiche, dunque, sulla base di
pregiudizi metafisici. Naturalmente nulla ci garantisce che la teoria elaborata attraverso
l intuizione, ovvero la libera creatività della mente, sia giusta oppure sia la corretta via. Tuttavia
abbiamo un modo efficiente per collaudare, a posteriori, la correttezza della via imboccata: la teoria
deve aderire ai fatti noti e prevederne di nuovi da raccogliere. La teoria non può entrare in contrasto
coi fatti, pena il suo immediato decadimento. Tuttavia anche le teorie che interpretano pienamente
e, talvolta , mirabilmente i fatti possono essere false, o almeno non corrette. e questo il caso della
meccanica newtoniana che interpreta bene, anzi in modo mirabile, gran parte dei fatti sperimentali,
sebbene non colga la natura intima delle materia. La meccanica newtoniana si è trovata in
alternativa alla relatività generale per un certo tempo, continua Einstein, prima che emergessero
fatti decisivi a favore della mia teoria. In altri termini, noi non sappiamo se la teoria fisica attuale
con cui interpretiamo un certo numero di fatti noti, o magari tutti i fatti noti, è una teoria corretta.
6 A. Einstein, Herbert Spencer Lecture, Oxford, 10 giugno 1933.
4
Potremmo sempre trovarci di fronte a una teoria efficiente, ancorché scorretta o incompleta. A
questo punto diventa lecito porsi la domanda se potremmo mai sperare di trovarla, la via corretta.
Anzi, è giusto chiedersi o, comunque, non considerare banale chiedersi, se esista davvero una via
corretta, oltre le nostre illusioni. Io, sostiene ancora Einstein, credo che la via corretta esista: al di là
delle nostre illusioni. E che sia anche possibile trovarla. Certo, non esiste un metodo standard per
scovarla, quell unica via corretta. Ovvero, non esiste un metodo standard per elaborare teorie
fisiche. Tuttavia esistono dei principi che possono indirizzarci verso la giusta strada. Si tratta di
principi non codificati. Non dimostrati, ne dimostrabili. Si tratta appunto, di pre-giudizi, il cui
carattere è puramente metafisico. 7
Di conseguenza i principi non codificati, non dimostrati, né dimostrabili, sono i fattori costituenti
che tenteremo di far emergere durante il cammino e la teorizzazione degli obiettivi della ricerca
postanalitica. Una ricerca all interno della quale viene costantemente operato, come in
un autoanalisi, il tentativo di una focalizzazione di un evento imprescindibile, come il pregiudizio
metafisico , ossia quello imperscrutabile della Buona Fortuna.
0.2 Breve introduzione al metodo postanalitico
Gli scritti e la tecnica d indagine postanalitica hanno avuto numerose recensioni. Fra le tante
citeremo quella del prof. Gianni Tibaldi8, già ordinario presso la Facoltà di Psicologia
dell Università di Padova, nelle discipline di: Teorie della personalità, Psicologia della personalità e
delle differenze individuali, Psicologia generale e della personalità, Psicologia applicata.
Scrive l illustre psicoclinico a proposito dell attività di Mario Bulletti: Possiede una coerente
epistemologia, una severità etica, una sensibilità clinica; ha scoperto una originale ed emotiva strada
per svelare « l origine psicoanalitica » ed è come una fonte inesauribile la cui capacità potenziale
può superare i limiti di alcuni teoremi freudiani, per andare verso nuovi e affascinanti orizzonti. La
postanalisi di fatto è un messaggio ed un modello per dare un senso sistemico in questa prospettiva.
La postanalisi collega elementi antropologici, simbolici, filosofici, psicosociali, psicodinamici,
storici, poetici, politologici, ed infine clinici in un sistema coerente in cui scopre una nuova
interpretazione nei misteri della mente; apre una strada creativa della cura, la sola motivazione e
traguardo di ogni vero analista .
Nei fatti la metodologia dell indagine postanalitica, oltre che a seguire i collegamenti enumerati
dall illustre psicoclinico, prof. Gianni Tibaldi, segue a grandi linee i canoni della psicologia
dinamica freudiana. Si differenzia fondamentalmente da quest ultima individuando il nucleo delle
nevrosi nel complesso di Cibele e non in quello del pre-Edipo9, come nell ultima revisione operata
dal padre della psicoanalisi. Ad ulteriore distinzione, in postanalisi, la genesi di tutte le fissazioni
psicopatologiche funzionali, quali le psicosi e quelle della endiadi nevrosi-perversione, è da far
risalire al complesso di Cibele che ne diviene, nella nuova realtà oggettiva, il vero nucleo.
La tecnica postanalitica, del soggetto disteso sul lettino al buio, segue il metodo dell originale
procedimento majeutico. Nei fatti, inerenti a tale metodica, fu proprio il filosofo greco Socrate ad
7 P. Greco, Eistein e il ciabattino, Editori Riuniti, Roma2002, Voce: teoria, pp. 526.
8 Rappresentante in Italia della UNDL Foundation , Universal Networking Digital Language (ONU), Palais des Nations, di Genève;
Presidente di Glocalimage ; Mambro del Consiglio Direttivo della Union des Associations Internationals , Bruxelles .
9 S. Freud, in Opere, Boringhieri,Torino, 1979, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64. Con ciò la fase preedipica della donna acquista
un significato che finora non le avevamo attribuito. Poiché in tale fase vi è spazio per tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il
sorgere delle nevrosi, pare necessario ritrattare la validità generale della tesi che il complesso edipico sia il nucleo della nevrosi.
5
utilizzare per primo la tecnica del divano utilizzata in psicoanalisi e poi anche dalla postanalisi;
infatti, anche secondo l illustre storico della psicologia, Peter R. Hofstätter: Il procedimento
psicoanalitico si rivela ancora sorprendentemente simile ad un metodo curativo in uso nel mondo
dell antica Grecia, tramandatoci da una caricatura che Aristofane ne fa nella commedia « Le nuvole
» (intorno al 425 a.C.), dove attribuisce tale pratica a Socrate 10. La postanalisi non si fa quindi il
vanto dell originalità in questo specifico e fondamentale procedimento tecnico dell analisi eseguita
al buio con il soggetto disteso sul divano. Tale procedimento, come nell esemplificazione comica
della parodia di Aristofane, vedeva Socrate, già ventitre secoli prima di Sigmund Freud, applicare
paradossalmente sul soggetto strepsiade, la tecnica poi ripresa da Sigmund Freud. Per tal motivo si
può affermare che nessuno può vantare od attribuire a se ciò che veniva già praticato come tecnica
di analisi della mente già ventiquattro secoli fa in Grecia. Inoltre, nel metodo utilizzato
nell indagine postanalitica, lo psicoterapeuta agisce come un vero e proprio specchio psicologico
nei confronti del soggetto in analisi. Si tratta di una dinamica analoga a quella dello specchio fisico,
durante la quale ogni persona può osservare quelle parti del proprio corpo non visualizzabili se non
con uno specchio. In coerente analogia lo specchio psicologico dello psicoterapeuta evidenzia, per il
soggetto in analisi, quei particolari di se che il soggetto stesso non riesce a visualizzare. Utilizzando
la dialettica della psicologia comportamentale, potremmo affermare che tale impostazione, rende
attivo l insieme dell apparato dei neuroni specchio . Ciò a cui ci riferiamo è stato rilevato dal prof.
Giacomo Rizzolatti, dell Università di Parma, che: ha scoperto speciali neuroni della corteccia
premotoria che si attivano quando una scimmia esegue un preciso compito con la mano, per
esempio portarsi alla bocca un arachide. La cosa straordinaria è che gli stessi neuroni si attivano
quando l animale osserva un simile (o addirittura una persona) compiere la stessa azione. Rizzolatti
ha chiamato queste cellule neuroni specchio , suggerendo che essi ci offrono un spiegazione per
l imitazione, l identificazione, l empatia e la possibilità di imitare la vocalizzazione, tutti processi
mentali inconsci propri delle interazioni tra le persone 11. In postanalisi l empatia evocata attraverso
i neuroni specchio viene utilizzata per accelerare la focalizzazione dei processi mentali
inconsci , accentuando, di conseguenza, il processo di razionalizzazione degli stessi. Viene
utilizzata inoltre, di concerto, una tecnica specifica quale quella collaudata da: W. Stekel e dalla
scuola di F. Alexander a Chicago ( terapia attiva ): il terapeuta interviene nel processo avanzando
le interpretazioni che il paziente non sia ancora riuscito a trovare 12.
Inoltre a partire dall ottobre del 1983 ad oggi, ogni seduta viene registrata su magnetofono. Il
soggetto in analisi, diviene, subito dopo la registrazione, possessore dell audio cassetta. Si impegna
a riascoltarla ed a studiarla, seguendo anche i precisi dettami suggeriti dal postanalista.
Di fatto, il medesimo, dopo aver eseguito il suo lavoro di trascrizione di appunti, osservazione,
correzione di eventuali imprecisioni ed elaborazioni sulla seduta medesima, produrrà le risultanti
dell insieme della propria autoanalisi nella seduta successiva.
In tal modo si aumenta la possibilità di verifica, controllo e revisione sullo svolgimento di ogni
seduta, attivando un sillogismo, il cui fine è quello di aumentare metodicamente efficienza ed
efficacia del trattamento terapeutico. Un incremento avente come risultante la diminuzione del
numero di sedute necessarie per il raggiungimento del buon fine della psicoterapia stessa. Il
soggetto in analisi potrà in tal modo giungere in tempi più brevi all autonomia. Un autonomia resa
possibile dal graduale costante processo di apprendimento dell autoanalisi indotto durante il
trattamento postanalitico. Di pari passo il metodo di indagine postanalitico si precisa concentrandosi
nel processo didattico che diviene il punto di forza del procedimento postanalitico. Queste strategie
applicate in continuo permettono alla dialettica postanalitica un iterazione terapeutica affidabile,
anche se più breve, aumentandone i margini di sicurezza.
1 0 P. R. Hofstätter, Psicologia, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 268.
1 1 E. R. Kandel, La nuova scienza della mente, in MENTE & CERVELLO, n. 23, settembre ottobre 2006, gruppo editoriale L Espresso,
Roma, p. 71.
1 2 P. R. Hofstätter, Psicologia, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 269.
6
La strategia del processo didattico di apprendimento dell autoanalisi si presenta sotto il profilo
metodologico come un evoluzione tecnica in linea con l impostazione tracciata da Edgard Morin
nella sua indagine sociologica a Plozevet: le principe de la mèthode que j ai utilisè e à Plodè met
est de favoriser l èmergence des donnè es concrètes, de saisir les rèalitè s humaines sous de
diverses dimensions, de chercher [...] 13 (Il principio metodologico che ho utilizzato a Plodè met è
di favorire l emergenza di dati concreti, di comprendere la realtà umana sotto le sue dimensioni
differenti, attraverso i dati raccolti ). Ci precisa ancora al proposito: Le corps des hypothèses ne
peut être è tabli une fois pour toutes au terme d une prèenquête [...] 14 (il corpo delle ipotesi non
può essere fissato definitivamente dopo aver compiuto la ricerca iniziale). Pertanto l apertura di
Edgard Morin alla costituzione di ipotesi sempre nuove, visualizzate postanaliticamente, mediante
l applicazione di un metodo d indagine costante focalizzato su ogni processo di apprendimento , si
risolve nella verifica delle istanze emerse nella prèenquête ovvero in ogni prima seduta a cui
succederà sempre una seconda seduta di verifica perennemente attive nel loro succedersi. In
sostanza, nelle sedute postanalitiche, la concatenazione logica dei vissuti e dei concetti viene
continuamente verificata e dialetticamente rimessa in discussione attraverso una propositiva
attenzione selettiva rivelandosi in tal modo estremamente performante. Nei fatti già da lungo
tempo: Francis Crick e Christof Koch, neuroscienziati del California Institute of Technology,
hanno sostenuto, in modo persuasivo che l attenzione selettiva non è solo un importante area di
indagine, ma anche un elemento fondamentale della coscienza 15. Quindi attraverso l attenzione
selettiva si passa dallo stadio inconscio a quello della coscienza, salendo il primo gradino di quella
scala che conduce verso la prima meta di una nuova stabilità. Una stabilità che supera la
conoscenza. Una conoscenza che il filosofo presocratico Eraclito da Efeso (ca. 550 - ca. 480 a.C.)
definì come sapienza: è necessario che gli uomini amanti della sapienza siano esperti / di
moltissime cose (Fr. 35) 16. Una sapienza od una conoscenza che si rivelano inutili se non può
essere raggiunta la meta della saggezza: La saggezza è la virtù più grande, e la sapienza consiste
nel / Dire cose vere e nell agire avendo compreso la natura delle cose (Fr. 112) . Nei fatti la
sapienza eraclitea è da intendersi soprattutto come insieme di nozioni. Un insieme di nozioni che
consiste nel conoscere lo statuto psicofisico dell ordine naturale. La saggezza, perciò, è intesa
invece come una significazione alla quale si accosta maggiormente il significato odierno attribuito
alla sapienza.
Quindi nell insieme tecnico postanalitico, si ha una percorrenza su tre livelli: nel primo, che
potremmo definire metaforicamente come quello di un apprendistato, il soggetto in analisi ascolta il
proprio inconscio. Nel secondo stadio, dopo aver sgrossato, attraverso una prima conoscenza o
sapienza eraclitea, la propria coscienza, il soggetto si accinge a salire i gradini che lo condurranno
alla svolta decisiva del terzo stadio. Infine nel terzo stadio si giungerà al cambiamento
fondamentale consistente nell operare con saggezza. Una saggezza che diverrà il significante
emblematico di una nuova e dinamica armonia psicofisica. Un armonia che, sebbene instabile,
ognuno di noi deve continuamente finalizzare con maestranza. Quindi, riassumendo, si avrà un
processo di apprendimento iniziale di percezione e poi di riconoscimento di un fenomeno. Un
fenomeno che non potrà essere riconosciuto se prima non sarà stato percepito. Avremo quindi di
seguito che dal processo di conoscenza si passerà gradualmente a quello della presa di coscienza ed
infine alla costituzione di una realtà oggettiva saggiamente verificata. Questa breve introduzione
all insieme metodologico della psicoterapia postanalitica, utilizzato fin dall ottobre del 1983 a
tutt oggi, ha dimostrato ampiamente la sua efficace efficienza sul 90% dei casi in analisi. Il bacino
di utenza, all 87,5% privato, con soggetto pagante, è costituito a tutt oggi da circa 3000 casi
1 3 E. Morin, La Métamorphose de Plozevet Commune en France, Fayard, 1967, p.394.
1 4 E. Morin, La Métamorphose de Plozevet Commune en France, Fayard, 1967, p.394.
1 5 E. R. Kandel, La nuova scienza della mente, in MENTE & CERVELLO, n. 23, settembre ottobre 2006, gruppo editoriale
L Espresso, Roma, p. 70.
1 6 Eeraclito, I Frammenti, a cura di F. Trabattoni, Marcos y Marcos, Milano, 1989.
7
analizzati di cui il 55% di sesso femminile ed il restante 45% di sesso maschile, per un totale di
circa 24000 ore di psicoterapia. La verifica delle tesi postanalitiche è stata eseguita in tre continenti
nello svolgimento dell attività praticata in Europa e più precisamente a Louvain-La-Neuve (Belgio),
Ginevra (Svizzera), Perugia (Italia); in Africa: Casablanca (Marocco), Dakar (Senegal); ed in Nord
America; Los Angeles (California), Miami (Florida). Durante tale verifica è stata sempre riscontrata
la presenza del complesso di Cibele, visualizzabile in varie forme dinamiche addirittura antitetiche
ma combacianti anche agli antipodi più estremi. Una presenza però globale di cui la nuova
psicologia del prossimo futuro, sia dinamica che comportamentale, non potrà ignorare la realtà.
0.3 Gli antefatti
Nell ottobre dell anno 1983, terminati gli studi in scienze familiari e sessuologiche presso la facoltà
di Medicina dell Università Cattolica di Lovanio (Belgio) iniziai il mio lavoro di psicoterapeuta
nello studio di Perugia situato al numero 68 di via Gallenga. Tra gli utensili utilizzati per l indagine
psicologica, vi era quello del complesso di Edipo notoriamente evidenziato nella teorizzazione
psicoanalitica freudiana. Proprio in questo periodo si presentò nel mio studio una coppia di maturi
coniugi perugini che avevano un grave problema di relazione con la figlia. Era soprattutto la madre
che chiedeva un aiuto allo psicologo al fine di convincere la figlia ad abbandonare la sua relazione
sentimentale con il proprio fidanzato. Interdetto da tale richiesta convocai la ragazza in questione.
Si trattava di una giovane donna dell età di trentadue anni che mi raccontò di aver avuto diversi
fidanzati con i quali aveva sempre dovuto rompere la sua relazione, in conseguenza della reiterata
disapprovazione della madre. Una disapprovazione che giungeva fino alla violenza fisica, fatta agire
dalla madre stessa attraverso il braccio del padre. La ragazza, dal canto suo, sembrava decisa, sul
momento, ad opporsi ai voleri della madre. La figura del padre, all interno del quadro familiare, si
mostrava estremamente remissiva, interpretando lo stesso un ruolo secondario di sottomissione
avendo come unica funzione quella di fornire un sottomesso supporto alle decisioni della coniuge.
Riconvocata la coppia parentale, la madre affermò con decisione che la scelta affettiva della figlia
era sbagliata, senza alcuna possibilità di appello. Il padre, da parte sua, nell esprimere il proprio
parere in merito alla questione, mostrò solo qualche lievissima perplessità nei confronti della linea
seguita dalla moglie. Argomentò, con un bisbiglio sommesso: Questa povera figlia, così come
stanno le cose, non potrà mai farsi una famiglia... . Questa sua perplessità fu però immediatamente
e brutalmente censurata dalla coniuge che lo mise all istante, con un secco diniego verbale, fuori
causa.
Tutte le argomentazioni dell uomo che si presentarono in seguito, furono rigettate con veemenza.
La donna concluse platealmente affermando che era stata lei e solo lei, inconfutabilmente, a portare
il peso della figlia per nove mesi ed a partorirla con grande sofferenza. In tale affermazione di
possesso nei confronti della figlia e, contemporaneamente, di reiezione 17 nei confronti del padre,
1 7 Laplanche-Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, PUF, Paris, 1990, FORCLUSION, p. 163.
Forclusion: D.: Verwerfung. En.: repudation o foreclosure. Es.: repudio. I.: reiezione. P.: rejeção o repùdio.
Terme introduit par Jaques Lacan: mécanisme spécifique qui serait à l origine du fait psychotique.
18 Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, PRECLUSIONE, p. 393.
Preclusione: D.: Verwerfung. En.: repudation o foreclosure. Es.: repudio. I.: reiezione. P.: rejeção o repùdio.
Termine introdotto da Jaques Lacan: meccanismo specifico che sarebbe all origine del fatto psicotico .
19 R. Tannahill, Storia dei costumi sessuali, Rizzoli, Milano, 1985, p. 34. una donna di una tribù aborigena australiana, dopo che le era stato
spiegato come vanno le cose secondo gli occidentali, si rifiutò nettamente di credere a ciò che le veniva detto: lui non c entrare niente! disse
sprezzante .
20 I. Mariotti, Storia e testi della letteratura latina, Da Tiberio a Traiano, Zanichelli, Bologna, 1983, p. 5.
Da Augusto Caligola riprese l idea di un culto imperiale, ma l attuò con giovanile eccesso e con l inserzione di elementi orientali. Impose
dichiaratamente alle comunità dell impero, sia in Oriente che in Occidente e senza compromessi, il culto suo e dei suoi congiunti, collegandolo a
quello solare: in ogni tempio di qualsiasi religione doveva essere collocata la sua effigie fra quella degli altri dei .
8
la madre precludeva 18 il ruolo paterno del marito che veniva in tal modo completamente
estraniato 19. Così facendo la donna affermava il suo potere sovrano ed inconfutabile sul destino
della figlia. Diveniva così palesemente l unico ente generante, proclamando in tal modo la sua
partenogenesi. Una partenogenesi legata anticamente al concetto della divinità materna. Una
posizione cultuale che fu in anteprima matriarcale. Una posizione che si ripropose, millenni dopo,
in analogo ed in reduplicato, nella società patriarcale attraverso il culto divinizzante del genio
dell imperatore.20
Cercai a tal punto di ricondurre positivamente alla ragione quella donna così fortemente volitiva,
compiendo però in tal modo un errore dovuto all inesperienza. Il tentativo da me condotto ebbe
inizio utilizzando una strategia non direttiva. Una metodica tesa a far emergere le dinamiche attive,
traslate in negativo21nella circostanza. Il risultato fallimentare non si fece attendere. Infatti la donna,
come intuì che poteva attivarsi una benché minima censura, anche indiretta, che potesse mettere in
questione la sua dialettica pulsionale così nefanda22, di cui era perfettamente cosciente, interruppe
immediatamente il suo rapporto con lo psicologo. Dalla figlia, rimasta in contatto con me, seppi in
un secondo tempo, che la madre si recò, accompagnata dal padre, nella casa del fidanzato con cui la
stessa conviveva. In tale occasione il padre, reso furente di rabbia 23 (cifr. G.V.Catullus) dalla
moglie, malmenò pesantemente la figlia che poi costrinse a salire, sempre con violenza, nell auto
dove l aspettava la madre. La madre, a sua volta, aggrediva e neutralizzava verbalmente con pesanti
insulti il fidanzato che, uscito dalla sua abitazione, voleva prestare quello che sarà un inutile
soccorso alla ragazza. La storia si concluse in un definitivo accasamento forzato della figlia che
rimase sottomessa, come direbbe Catullo, per tutta la vita ai voleri della madre. Riportata in tal
modo la figlia a casa, la stessa si piegò ancora una volta alla volontà della madre divenendo in
modo definitivo colei che potremmo descrivere letteralmente o poeticamente come ancella della
dea 24 madre. Una madre che potremmo descrivere, ora, senza alcuna ombra di dubbio, come una
madre cibelica.
Attualmente, eseguendo una verifica di accertamento, sono stato aggiornato dalla non più giovane
figlia, oramai cinquantaseienne, che la stessa vive ancora con la vecchissima madre rimasta vedova
pochi anni dopo l evento da me narrato. La matriarca, come mi riferisce la figlia, sentenziava e
sentenzia ancora attualmente: fino a che vivo starai con me, dopo la mia morte farai quello che
vuoi . Possiamo dire che questo enunciato sancisce l epitaffio conclusivo e definitivo
dell evirazione operata sulla figlia. A tutt oggi quella madre, al dire della figlia stessa, non ha perso
ne lucidità mentale né veemenza.
Questo caso emblematico, proprio grazie all insuccesso terapeutico, diventerà per me soggetto
fondamentale di studio. Venne da me registrato come caso A e divenne il motore di quello studio
pluridisciplinare che mi porterà a formulare la teorizzazione del complesso di Cibele.
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1
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2 1 Laplanche Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 610
Transfert (o traslazione) : questo transfert di apprendimento è talora chiamato positivo,in opposizione a un transfert detto negativo che
designa l interferenza negativa di un primo apprendimento con un secondo ( ) .
2 2 Laplanche Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, Pulsioni di morte, pp. 464, 465.
Pulsione di morte:
Nel quadro dell ultima teoria freudiana delle pulsioni, designano una categoria fondamentale delle pulsioni che si oppongono alle pulsioni
di vita e tendono alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l essere vivente allo stato inorganico. Rivolte dapprima verso l interno e
tendenti all autodistruzione, le pulsioni di morte verrebbero successivamente dirette verso l esterno, manifestandosi allora sotto forma di pulsione di
aggressione e di distruzione .
2 3 G. Valeri Catulli, Carmina, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria, traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli, Milano, 1996.
Vedi testo in appendice.
2 4 G. Valeri Catulli, Carmina, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria, traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli, Milano, 1996
9
0.4 Analogie fra il caso A con quello dei vissuti freudiani
Il caso A fu per me un rivoluzionario soggetto di riflessione, che potrebbe essere definito come
quello della tipica fortuna del principiante . Entrambi gli attori maschili, padre e fidanzato, si
erano mostrati incapaci di opporsi alla ferrea volontà della donna: una madre che si mostrava
reiteratamente dominante sulla vita affettiva della figlia. Entrambi gli uomini, marito e genero in
erba, apparivano platealmente preclusi o reietti dalla potente volontà di quella donna. Una donna
che esprimeva, in se e per se e pienamente, la figura di una madre così dominante da mostrarsi
come un vero e proprio centro25 ginocratico della vita familiare.
Scoprirò in seguito che anche la suocera di Sigmund Freud separerà, in conseguenza di un
raffinato capriccio , per lunghi anni , le due figlie, Martha e Minna Bernays, dai rispettivi
fidanzati. Infatti, scrivendo alla cognata Minna, il padre della psicoanalisi affermerà riguardo alla
futura suocera: Come madre, dovrebbe essere felice di sapere felici per quanto è possibile i suoi tre
figli, e sacrificare i suoi desideri ai loro bisogni. Non lo fa, si lamenta di essere superflua, di essere
trascurata, cosa di cui noi, per la verità, non le diamo alcun motivo, vuole trasferirsi ad Amburgo
per una specie di raffinato capriccio, senza tener conto che, così facendo, separa te e Schönberg, e
me e Martha per lunghi anni 26. Nell evidenza dei fatti, la suocera di Sigmund Freud avrà lo stesso
comportamento di separazione, sebbene meno cruento, agito dalla madre del caso A. Infatti mentre
la madre del caso A attivava una palese forzatura fisica, la suocera di Sigmund Freud rendeva attiva
una palese forzatura psicologica attraverso il suo raffinato capriccio . Quindi la forzatura si
evidenziava come strategia privilegiata tesa a dividere ed allontanare le figlie dai rispettivi fidanzati.
Una forzatura evidente nel primo caso, quello del caso A, mimetica nel secondo caso, quello
freudiano, ma pur sempre espressione della volontà ginocratica di ogni madre cibelica. Con il
lamentarsi di essere superflua e trascurata, attivava una tecnica molto più raffinata, quella sadicopassiva
dell algolagnia27.
Ignaz Schönberg, fidanzato della cognata Minna, si ribellerà alla suocera dicendole, come ci ha
testimoniato proprio Sigmund Freud, che: [...] è egoista, e che non ha trovato in lei la madre che
cercava 28. Il risultato di tale ribellione vedrà, anni dopo, la separazione definitiva dei due fidanzati
Ignaz Schönberg e Minna Bernays ed infine la convivenza della nubile cognata Minna in casa
2 5 S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera del 21 febbraio
1883, pp. 31,32.
Vi sono questioni serie che meritano di essere trattate diversamente. Probabilmente sai di che si tratta. La mamma ha deciso di andare ad
Amburgo con te, prima di tutto per fare laggiù una ricognizione, poi per mettervi le tende. Schönberg le ha detto che è egoista, e che non ha trovato in
lei la madre che cercava. Furono rotti i rapporti e ci fu grande ostilità. Voglio dirti subito che ho preso posizione, ma ti pregherei molto, se mi concedi
una certa influenza in proposito, di non prenderne partito, nelle tue lettere, per la mamma, o di credere a tutte le sue lamentele che adesso senti su di
noi. Ora non credere che io le sia ostile o abbia rinnegato l alta opinione che ho di lei, oppure che i miei rapporti con lei siano meno affettuosi. Non
credo di farle un torto; la vedo tra noi con una grande energia, spirituale e morale, capace di grandi cose, senza una traccia delle ridicole debolezze
delle donne anziane, ma non si può fare a meno di riconoscere che essa prende posizione, contro noi tutti, come un uomo anziano. Per il fatto che la
sua energia e il suo fascino hanno resistito così a lungo, esige ancora una piena partecipazione alla vita, e non da persona anziana, bensì vuole essere il
centro, la dominatrice, il fine di tutto. Ogni uomo, giunto all anzianità con tutti gli onori, vuole la stessa cosa, ma nella donna ciò è insolito. Come
madre, dovrebbe essere felice di sapere felici per quanto è possibile i suoi tre figli, e sacrificare i suoi desideri ai loro bisogni. Non lo fa, si lamenta di
essere superflua, di essere trascurata, cosa di cui noi, per la verità, non le diamo alcun motivo, vuole trasferirsi ad Amburgo per una specie di raffinato
capriccio, senza tener conto che, così facendo, separa te e Schönberg, e me e Martha per lunghi anni.
2 6 S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera a Minna
Bernays, del 21 febbraio 1883, p. 32
2 7 L.E. Hinsie R. J. Campbell, Dizionario di Psichiatria, Astrolabio, 1979, p. 24.
Piacere del dolore. Termine introdotto da Schrenck-Notzing per comprendere sia il sadismo che il masochismo. Il sadismo viene
chiamato algolagnia attiva, mentre il masochismo algolagnia passiva.
2 8 S. Freud, Epistolari, Lettere alla fidanzata e ad altri corrispondenti 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, lettera a Minna
Bernays, del 21 febbraio 1883, p. 31
29 D. Berthelsen, Vita quotidiana in casa Freud, Garzanti, 1990, p. 25.
[Paula, la collaboratrice domestica di casa Freud]Contrariamente alla moglie di Freud, la zia le appare molto possessiva . Paula si limita
a prendere atto che la camera da letto di Minna è attigua a quella dei Freud e accessibile solo attraverso questa: evidentemente nelle case dei signori
tutto è un po strano.
1
Freud29. Del ribelle Ignaz Schönberg, contrario ai voleri della suocera e vittima del conflitto con la
stessa, non rimarrà più traccia. Il genero non gradito, o meglio forcluso dalla suocera, seguirà, anche
se in modo più diplomatico, lo stesso destino di reiezione del fidanzato della figlia cibelizzata del
caso A: sarà scancellato dalla vita della propria fidanzata.
Ritornando proprio al caso A, dopo l evento del ratto della figlia, cominciai, giustamente, a nutrire
dei dubbi sulle dinamiche edipiche. In questo caso non c era una figlia innamorata del padre o un
figlio innamorato della madre ma, in tutta evidenza, una madre ferocemente innamorata della figlia.
Iniziai quindi a supporre che sia la fase preedipica che quella edipica fossero dirette e pilotate da
questo complesso patologico evirante agito e diretto dalla madre. Un complesso che sarà finalmente
messo in luce nel campo di indagine della postanalisi, con la nomenclatura di complesso di
Cibele . Mi resi conto anche che il nucleo della nevrosi non era da ascrivere ne alla fase preedipica,
come teorizzato dal padre della psicoanalisi solo nel 193130, ne a quella edipica, ma all interno del
complesso di Cibele. Esso era il vero motore pulsionale nel quale, parafrasando proprio Sigmund
Freud, potevano essere definite la genesi di tutte le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti
ricondurre il sorgere delle nevrosi 31. A ciò noi potremmo aggiungere senza tema di smentita, ogni
forma di psicopatologia, essendo incontestabilmente ogni madre il centro psico-fisico e
spazio/temporale del concepimento di ogni essere umano.
La scoperta del complesso di Cibele ci ha permesso di coniare il termine postanalisi poiché , il
campo di indagine della stessa, si pone in diretta successione concettuale al campo dell indagine
psicoanalitica freudiana.
0.5 L esiodea Gaia e la frigia Cibele: due espressioni ambivalenti del mito della
Grande Madre
La forza evirante della madre cibelica di quel mio primo caso, mi spinse a ricercare la figura
mitologica più rappresentativa della madre evirante. Con mia grande meraviglia scoprii le icone di
due dee che interagivano in parallelo fra di loro, esattamente come interagirono fra di loro la civiltà
greca con quella romana. Queste divinità erano: l esiodea Gaia o Gea: ...dall ampio petto, sede
sicura per sempre di tutti / gli immortali che tengono la vetta nevosa dell Olimpo, 32e l anatolica
Mater deum 33 Cibele. Seguendo il metodo dell indagine postanalitica34, le analogie all interno
2
3 0 S. Freud, in Opere, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64
Con ciò la fase preedipica della donna acquista un significato che finora non le avevamo attribuito. Poiché in tale fase vi è spazio per tutte
le fissazioni e rimozioni alle quali siamo soliti ricondurre il sorgere delle nevrosi, pare necessario ritrattare la validità generale della tesi che il
complesso edipico sia il nucleo della nevrosi.
31 S. Freud, in Opere, Sessualità femminile (1931), vol. XI, p. 64
32 Esiodo, Teogonia, 117-118.
33 T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 11.
34 M. Bulletti, La genesi della Violenza in Occidente, Volumnia, Perugia, 2004.
35 Esiodo, Teogonia, 126-128.
Gaia per primo generò, simile a sé,
Urano stellato, che l avvolgesse tutta d intorno,
che fosse ai beati sede sicura per sempre.
36 Esiodo, Teogonia, 161-166
Presto,creata la specie del livido adamante,
fabbricò una gran falce e si rivolse ai suoi figli
e disse, a loro -aggiungendo coraggio, afflitta nel cuore:
Figli miei e d un padre scellerato, se voi volete
obbedirmi potremo vendicare il malvagio oltraggio del padre
vostro, ché per primo concepì opere infami .
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del quadrinomio delle due dee si presentarono ben presto nella loro evidenza. In primo erano
entrambe dee incestuose: di fatto nel narrato mitologico entrambe amavano i propri figli; figli
amanti predestinati all evirazione. Nella fattispecie avremo Urano35 con la madre Gaia36, ed Attis17
con la madre Cibele38. Queste due divinità erano le matriarche indiscusse del Pantheon patriarcale
pagano occidentale. Gaia rappresentata come metafora del monte Olimpo 39e Cibele rappresentata
come metonimia dei monti Kybela. A tutti gli effetti, il nome di Cibele derivava proprio da quello
dei monti Kybela40, situati in Anatolia. Nel Pantheon greco la matriarca era esplicitamente Gaia e,
per ciò che riguarda il Pantheon romano, lo era la Mater deum Cibele. Gaia, in quanto Gea,
rappresentava la terra intera. Cibele, a sua volta, in quanto anche Magna mater o Grande Madre dei
romani, rappresentava anch essa la terra intera. La Grande Madre greca e la Mater deum romana
possedevano in loro una proprietà, quella definibile come la più pregnante per ogni donna, quella
legata all essenza della fecondità, ossia la capacità di concepire la vita. Erano tutte e due madri di
ogni creato, comprendendo dei e uomini, animali e cose, ed anche madri di tutto il percepito, e
persino del non percepibile. Quello della fecondità era un attributo, una proprietà talmente
consustanziale, da presentarsi come il loro sinonimo più pregnante. Un sinonimo che però
conteneva al proprio interno una duplice caratteristica legata alla funzione stessa. Nei fatti tale
funzione poteva definirsi, nel suo essere ambivalente ed ambigua, come felicemente gaia od
infelice, rivelandosi quindi in tutta la sua dualità nevrotica. Seguendo lo schema tipico della
nevrosi, che ...è per così dire la negativa della perversione 41, potremo senza dubbio affermare che
la risultante della funzione della fecondità, ossia il concepito procreato, veniva predestinato ad
essere sadicamente evirato, come reso evidente dalla narrazione mitologica. Il concepimento di
Attis è in se e per se espressione palese di un evento fortemente psicopatologico: ... la madre di
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Esiodo, Teogonia, 178-182
ma dall agguato il figlio [Crono] si sporse con la mano
sinistra e con la destra prese la falce terribile,
grande, dai denti aguzzi, e i genitali del padre
con forza tagliò, e poi via li gettò,
dietro;
1 7 A. Cattabiani, Calendario, Rusconi, Milano, 1989, p. 162.
Egli [Attis, figlio di Cibele] torna alla madre primordiale, ridiventa androgino in lei, si separa dalla propria virilità per risorgere
nell Uno.Il rito che rammentava il mito e lo attualizzava per i partecipanti, si svolgeva nella seconda quindicina di marzo, intorno all equinozio di
primavera: cominciava il 15, che nel calendario lunare antico era il giorno della luna piena, e culminava nei giorni che segnavano il passaggio del sole
dallo zodiaco meridionale a quello settentrionale. Questo legame con la luna piena e il sole trionfante, su cui è superfluo spendere commenti, è
testimoniata da una statua ai Musei Vaticani dove Attis appare con il berretto frigio ornato da una falce lunare e i raggi solari.
38J. Frazer, Il ramo d oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 546
Si davano [i novizi] in preda alla più sfrenata eccitazione e lanciavano i pezzi tagliati del loro corpo verso la statua della crudele dea. Questi
mutili strumenti di fertilità venivano poi impacchettati e sepolti rispettosamente in terra o in camere sotterranee sacre a Cibele, dove, come per il
sacrificio del sangue, venivano forse considerati capaci di richiamare Attis in vita ed affrettare la risurrezione generale della natura, che allora faceva
germogliare le foglie e sbocciare i fiori sotto il sole primaverile
39 Enciclopedia della geografia, edizione De Agostini, Novara, 1993.
Olimpo (Grecia), il più alto (2917) massiccio montuoso della Grecia centro-orientale, tra Tessaglia e Macedonia. Nell antichità, sulla sua
vetta, spesso nascosta dalle nubi, si riteneva avessero la loro dimora gli dei.
40 F. Cassola, Inni Omerici, Mondadori, Milano,1991, p. 327.
Alcuni studiosi moderni chiamano la madre degli dei «Cibele» ( ), e quest uso, che ha il vantaggio della semplicità, non può dirsi
scorretto; ma non va dimenticato che il nome Cibele, come Idea, Dindimene, ecc., deriva da un toponimo (i monti Kybela)
41 S. Freud, in Opere, Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Primo saggio. Le aberrazioni sessuali, 4. Pulsione sessuale dei nevrotici, vol.
IV, p. 477.
I sintomi dunque si formano in parte a spese della sessualità anormale; la nevrosi è per così dire la negativa della perversione.
La pulsione sessuale degli psiconevrotici permette di scorgere tutte le aberrazioni che abbiamo studiato come variazioni della vita sessuale
normale e come manifestazioni di quella morbosa.
In tutti i nevrotici ( senza eccezione ) si trovano nella vita psichica inconscia moti di inversione, ossia fissazione della libido su persone
dello stesso sesso.
ˇ J. Frazer, Il ramo d oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 546.
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Attis concepì suo figlio ponendosi in seno una melagrana proveniente dagli organi genitali tagliati
ad un mostro chiamato Agdestis, una specie di doppione di Attis. 42
Quindi nella funzione del creare si esprimeva chiaramente l endiadi vita-morte. Per giustificare tale
funzione si aveva nel culto di Cibele, una liturgia, per così dire, riparatoria che diveniva
remunerativa nel momento stesso in cui, tre giorni dopo la morte, si attualizzava la resurrezione del
figlio Attis. Ciò avveniva al fine di permettere alla madre, in aeternum ad ogni equinozio di
primavera, la reduplicazione all infinito dell evirazione mortifera associata poi alla resurrezione del
figlio. In questo specifico rituale, ripetuto all infinito, si definiva in concreto la serie delle endiadi
nevrotico-perversa, sulla quale si fondava il sintomo più tangibile della psicosi. Un sintomo che
metteva in luce il rimosso etiologico più nascosto, quello della psicogenesi psicotica.
Una funzione il cui risultato sta proprio nell effetto della psicosi, vera e propria morte dell anima,
che diviene antitesi della funzione stessa. Un antitesi che si rende evidente in quel defunto ,
derivato dal rovesciamento negativo di funto, participio passato del verbo fungere. Quindi la
psicogenesi psicotica, rappresentata nel mito di Cibele ed agita nel complesso che da esso deriva, è
la messa in scena dell assassinio dell anima compiuto da ogni madre cibelica sulla psiche dei figli
di ambedue i sessi. In tal modo, per queste due matriarche terribili e terrificanti, Gea e Cibele, di
cui la terra è etimologicamente metafora, è possibile definire una fenomenologia che vede entrambe
riflettersi nello specchio nevrotico perverso, illuminato dalla fredda luce psicotica. Infatti, per
rimemorare, anche Gaia indurrà e condurrà l atto dell evirazione del figlio Urano. Una evirazione
che, come appena chiarificato, simbolicamente equivale alla morte. Una morte che si trasformerà in
vita con il nascere della dea Afrodite: [...] una figlia/nacque [nel mare, dalla spuma
dell immortale membro], e dapprima a Citera divina/giunse, e di lì poi giunse a Cipro molto
lambita dai flutti 2. A tal punto ci sembra importante evidenziare l analisi riguardante il campo
perverso. Un campo che ci obbliga a considerare la dinamica del feticismo o del fetichismo 44.
Una dinamica che interessa, secondo e Elisabeth Roudinesco e Michel Plon, la parte del corpo o la
parte del cuerpo con il corpo intero o como sustitutos de una persona .
In sostanza dovremo considerare il rapporto esistente nel calembour della pars pro toto . Il nome
di Gea rappresenta, infatti, la totalità del corpo terreno, ossia della terra. e perciò il toto all interno
del quale sono contenute tutte le parti. Quindi la persona Gea, nel momento in cui permette la
definizione del corpo intero della terra, come avviene in geografia, diviene metafora proprio perché
permette lo scambio della persona con la cosa 45, come sancito da Roman Jakobson. Il nome di
Cibele, invece, derivato da quello di una catena montuosa, rappresenta una parte del corpo della
terra, ossia una pars pro toto . Di conseguenza, il nome Cibele si presenta come una metonimia, in
quanto, sempre come sancito da Roman Jakobson, è: scambio della cosa con la persona . Avremo
quindi un insieme costituito dalle equazioni: Cibele sta a Gaia esattamente come la pars sta al toto
o come la metonimia sta alla metafora. Inoltre, sotto il profilo dinamico, Gea potrà essere divisa o
frazionata in parti, mentre Cibele, per sommazione di parti, potrà costituire il corpo intero della
Grande Madre ossia di se stessa: la Terra. Perciò potremo aggiungere un altra equazione, Gaia sta a
Cibele esattamente come la proprietà del dividersi sta a quella del sommarsi. Quanto appena
esemplificato fornisce, in breve, una messa in luce della dialettica feticistica, o più estesamente
perversa, che lega dialetticamente fra di loro le due matriarche del Pantheon greco e romano. Una
dialettica che però, nel momento stesso in cui è psicologicamente evirante, mostra, in tutta la sua
evidenza, anche la sua controparte costituita da un insieme che affonda le sue radici nella
psicopatologia più profonda.
4
43 Esiodo, Teogonia,191-193
44 E. Roudinesco e M. Plon, Diccionario de psicoanàlisis, Paidòs, Buenos Aires, 2005, voce : fetichismo, p. 322.
45 A. Marchese, Dizionario di retorica e di stilistica, Mondadori, Milano, 1989, voce: metafora, p. 185; voce: metonimia, p. 190.
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0.6 I seicento anni del culto di Cibele a Roma
Per ciò che riguarda l introduzione della Grande Madre Cibele nel mondo romano, gli avvenimenti
furono del tutto singolari. La dea Cibele ebbe la sua sede più degna a partire dal 204 a.C. in un
tempio per lei appositamente elevato nell acropoli della Roma più sacra, quella quadrata, fondata da
Romolo sul colle Palatino. Andando a ritroso di un anno nel tempo, ossia nel 205 a.C., potremo
collocare la narrazione dell arrivo della dea a Roma. Lo storico Tito Livio ci testimonia gli antefatti
relativi al 4 aprile di quell anno, data in cui, la pietra nera, simbolo della dea: [...] fu deposta nel
tempio della dea Vittoria che è sul Palatino. Quel giorno fu dichiarato festivo. Una folla di popolo
portò doni sul Palatino, dove furono celebrati con un lettisternio dei ludi, detti Megalesi 46. Il
simulacro della Magna Mater, Grande Madre, fu portato a Roma, sempre secondo Tito Livio,
poiché , durante il periodo delle guerre puniche, era stata trovata nei libri sibillini una profezia che
diceva che, quando un nemico venuto da terre straniere avesse portato guerra in Italia, si sarebbe
potuto cacciarlo e vincerlo se fosse stata recata a Roma da Pessinunte la statua della Madre Idea.
Questo vaticinio trovato dai decemviri influì sul senato, tanto più in quanto gli ambasciatori che
avevano portato doni a Delfo avevano riferito che, quando essi avevano fatto sacrifici ad Apollo
Pizio, l'esame delle viscere aveva dato esito favorevole ed era venuto dall oracolo un responso che
diceva che era prossima per il popolo romano una vittoria molto più grande di quella dalla cui preda
erano venuti i doni che essi portavano 47. Da allora in poi, la pietra nera della dea rimarrà
indisturbata sul tempio del colle Palatino dal 204 a.C., fino a quando l editto dell imperatore
romano Teodosio I (379-395 d.C.), abolirà, nel 392 d.C., tutti i culti pagani. Perciò si avrà il dato di
fatto ben evidente di un arco temporale di permanenza della dea Cibele che si estende per 597 anni.
Se consideriamo la data della fondazione di Roma, nel 753 a.C., e la fine del suo impero con la
deposizione dell imperatore Romolo Augustolo nel 476 d.C., avremo un arco di 1229 anni che
corrisponde a poco più del doppio del regno di Cibele, nel suo trono sul colle Palatino. Quindi la
dea frigia impose il suo culto nella capitale dell impero nel periodo in cui iniziò la grande
espansione di Roma accompagnando la città eterna fin verso la fine del suo declino. Potremo,
quindi, affermare che Roma, come Attis, prese vita e forza dalla dea, al nascere del suo vero potere,
fino all inizio della sua decadenza e morte. Ciò reduplica sul piano storico la sequenza
concepimento, nascita, morte e resurrezione agita dalla dea sul figlio Attis. Una morte ideale che
sanciva la fine del paganesimo a cui farà seguito l incontestabile resurrezione ideale inscrivibile
nel cristianesimo.
0.7 Il tempio romano del Pantheon e Cibele
Alla dea Cibele, oltre al tempio per lei elevato sull acropoli di Roma fu anche consacrato, nel 27
a.C., un altro tempio, l unico dei templi pagani rimasto intatto fino ad oggi: quello del Pantheon. e
il professor Umberto Cordier che ci informa sugli antefatti: Secondo una leggenda, Agrippa fu
ispirato alla costruzione del Pantheon da un apparizione della dea Cibele, che gli promise aiuto in
una guerra contro la Persia in cambio della costruzione di un tempio magnifico, di cui gli mostrò
4 6 T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 14.
47 T. Livii, Ab urbe condita, XXIX, 10.
48 U. Cordier, Guida ai luoghi misteriosi d Italia, Piemme, Casale Monferrato, (Al), 1997, p .330.
4
1
l immagine 48. L etimologia del nome è ben chiara. Infatti secondo l illustre linguista Giacomo
Devoto49, Pantheon è: forma sostantivata della formula greca pàntheon (hierón) tempio (hierón)
di tutti (pan-) gli dei (-theion) 50 . In questo tempio infatti, come ci evidenzia ancora Umberto
Cordier, vi sono sette grandi nicchioni, alternativamente rettangolari e circolari, che contenevano
in origine le statue delle sette divinità planetarie . Tali divinità planetarie, erano anche dette
reggenti . Ad esse venivano associate le ore di ogni giorno. Attraverso il computo del susseguirsi
delle stesse, venne determinata la sequenza dei giorni che ritroviamo ancora oggi nella settimana
attuale. Alfredo Cattabiani ci informa al proposito che: Si attribuiva la prima ora, quella del
mattino, al pianeta più lontano, Saturno, e le altre gradatamente ai pianeti meno lontani, Giove,
Marte, Sole, Venere, Mercurio, per terminare con la Luna, il più vicino 51. Questa successione di
pianeti definirà la geometria del tempo della nostra settimana. Il giorno di Saturno diverrà per noi il
sabato, quello del Sole la domenica e poi ancora avremo che dalla Luna avrà origine il lunedì, da
Marte il martedì, da Mercurio il mercoledì, da Giove il giovedì e infine da Venere il venerdì. Quindi
palesemente la dea Cibele sovraintendeva alla dimensione cronologica del tempo che da ogni ora si
estendeva alla settimana per poi fluire, senza interruzione, al di là dei mesi e degli anni. Fino ad
arrivare ai nostri tempi, A questa vera e propria trascendenza del fluire cronologico, ritmato dai
pianeti dell universo generati dalla dea ed inglobati nel ventre uterino del suo tempio, si aggiunge
un altra evidenza: quella dello hieros gamos o del matrimonio sacro tra cielo e terra. Questa fusione
veniva favorita e resa evidente proprio grazie all artefatto architettonico della cupola a calotta
semisferica alla cui sommità fu praticato un foro circolare a cielo aperto del diametro di 9 metri.
Questa grande apertura con il cielo aveva un significato ben evidente: non esistevano diaframmi od
ostacoli fra la dimensione terrena e quella dell urano celeste, per cui il Pantheon si presentava come
l utero terreno sempre aperto alla congiunzione fecondante con il cielo esattamente come nella
figurazione mitologica dello hieros gamos fra Gea ed Urano. Nel tempio pagano del Pantheon, di
fatto, si realizzava simbolicamente l amplesso finalizzato al concepimento, fra magna mater terrena
e l universo etereo. Metaforicamente potremmo dire dell anima eterea con il corpo terreno. Una
congiunzione che ci rinvia al concepimento del tempo, presente anche nell epifania esiodea di
Crono, conseguente, come appena accennato, al matrimonio sacro fra la terra Gaia con il figlio cielo
Urano. Quindi il Pantheon, seguendo passo per passo l iterazione ideale, è il luogo sacro dove la
terra, generando il cielo e poi unendosi con esso, dà vita al tempo, ed anche il luogo dove la terra od
il corpo, generando l anima e fondendosi poi con essa, dà vita all essenza umana. Questa diade
simbolica immanente e nel contempo segreta, del tempo e dell essenza umana, celata nel
simbolismo del tempio, non appartiene, però, alla Mater deum patriarcale ma bensì alla pacifica
Grande Dea della primigenia religione monoteista matriarcale. e un relitto concettuale che
ripropone caratteristiche specifiche concepite all interno del mito riguardante la prima divinità
adorata dall essere umano. Un primato che vedrà ogni altro culto nomenclabile solo come
successivo o secondo, in ordine di sequenza, a quello monoteista della Grande Dea. Le coincidenze
concettuali fra Gaia-Cibele e la Grande Dea sono immediatamente identificabili nella definizione
che ci viene fornita dal paleoantropologo Terence Meaden: Un elemento comune nei miti della
creazione e dei riti annuali, che celebravano il rinnovamento del mondo, erano le Nozze Cosmiche
o le Nozze Sacre (l unione delle divinità), che garantivano l eterno processo della creazione e della
continuazione dell universo. Assolutamente evidenti erano le nozze celesti, quelle fra le divinità che
rappresentavano il cielo e la terra, oppure il sole e la luna 52. Nel Pantheon si ripeteva quella
4
4 9 G. Devoto (Genova 1897-Firenze 1974), fu uno dei massimi esponenti del novecento, Presidente dell Accademia della Crusca (1963).
50 G. Devoto, Dizionario Etimologico, F. Le Monnier, Firenze, 1989, p. 301.
51 A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, p. 32.
5
5
5 2 T. Meaden, Stonehenge- il segreto del solstizio, CDE, Milano, 1998, p. 63.
53 T. Meaden, Stonehenge- il segreto del solstizio, CDE, Milano, 1998, p. 43.
1
congiunzione, quello hieros gamos, fra cielo e terra che però era già oggetto di culto nell era
neolitica. Un esempio fra tanti ci viene fornito dal tempio di Gavrinis, luogo di adorazione della
Grande Dea, già quattro millenni prima della nostra era e dell edificazione del Pantheon. Questo
santuario, è situato sull isola di Gavrinis, al largo della costa della Bretagna, eretto sulla punta
estrema di una penisola, di fronte all Oceano Atlantico. Ciò che dimostra la concettualizzazione
dello hieros gamos fra cielo e terra, più precisamente fra i pianeti Sole Luna con l utero della
Grande Dea, viene reso nel concreto attraverso l imperniarsi spazio temporale ben preciso di una
pietra, di quarzo bianco, con un orientamento ben particolare. Ci informa al proposito Terence
Meaden: L entrata e la galleria [del tempio di Gavrinis] sono state orientate in maniera tale che
questa pietra potesse essere illuminata al sorgere della luna nel suo punto estremo a sud, condizione
che si verifica ogni diciotto anni, e anche al sorgere del sole nel solstizio d inverno ogni anno 53.
Quindi si aveva un congiungimento, all interno del talamo uterino della Grande Dea, con due
pianeti diversi che scandivano, esattamente ed inequivocabilmente, la cronologia diurna e notturna
del nostro universo. Una scansione che si iterava di anno in anno ossia di nascita in nascita ed ogni
diciotto anni ossia di generazione in generazione. In quella terrena pietra di quarzo bianco fecondata
dal cielo diurno del Sole e dal cielo notturno della Luna nel momento stesso in cui questi due cieli
divenivano un tutt uno avveniva una rappresentazione simbolica ben precisa. Una rappresentazione
simbolica che vedeva il generarsi della vita in ogni anno. Di fatto è questo il periodo minimo di
tempo che può intercorrere da un parto all altro per ogni donna. Analogamente i diciotto anni
rappresentavano il periodo minimo e massimo della vita media di ogni generazione definendo in tal
modo la scansione del tempo della vita, della morte e della rigenerazione. Quindi il simbolismo del
concepimento della vita e del tempo ed il susseguirsi ritmato degli stessi nel loro rigenerarsi era ben
presente nel mondo matriarcale monoteista già molti millenni prima della nascita del matriarcato
androcratico di Gaia-Cibele. Nello specifico di queste due matriarche androcratiche, Gaia
concepisce il tempo con un solo figlio, ossia Urano, mentre Cibele concepisce il tempo con le sette
divinità reggenti di cui, in quanto Mater deum, è la Magna Mater, la Grande Madre. Perciò si avrà
palesemente, per quest ultima, l evidenza di un rapporto plurimo od orgiastico, etero ed
omosessuale. Un matrimonio sacro che vedrà la congiunzione nell utero tempio della Grande
Madre, spalancato verso il cielo, non solo tra i figli di sesso maschile ma anche fra la Luna e
Venere, di sesso femminile. Quegli stessi sette figli che, in quanto pianeti, gravitavano nel cielo
etereo per congiungersi con i loro corrispondenti terreni, rappresentati simbolicamente dalle sette
statue delle divinità a loro corrispondenti. La filogenesi concettuale di questo plurimo matrimonio
sacro si rende evidente nella precedente liturgia della Grande Dea. Infatti lo scandirsi iniziale del
tempo, ossia il concepimento del tempo, veniva sancito, anche nel Pantheon, attraverso la
connessione epifanica del sole e della luna, come, in precedenza, nel tempio di Gavrinis. Non a
caso, secondo quanto ci fa notare Umberto Cordier, nel Pantheon: Il foro della sommità è il Sole
che, infatti, agli equinozi proietta, sempre a mezzodì, un raggio di luce che taglia il cornicione
proprio come l astro in quei giorni taglia l equatore celeste 54. Per ciò che invece riguarda la luna,
leggeremo di seguito: La struttura è orientata con uno scarto di 5°, pari all obliquità dell orbita
lunare, come il Palazzo della Ragione di Padova e Castel del Monte di Andria . In sostanza nel
tempio romano si volevano ottenere le stesse risultanti di congiunzione solilunare analoghe a quelle
agite nel tempio bretone della Grande Dea. Per tal motivo si può affermare che nel culto di Gaia e
Cibele, escludendo chiaramente la liturgia evirante, fossero presenti dei basilari tratti simbolici e
cultuali mutuati dalla primigenia religione matriarcale. Tratti simbolici che però in epoca anteriore
al 10.000 a.C., vedevano il Sole e la Luna essere esclusivamente di sesso femminile poichè
espressione partenogenetica della Grande Dea. Un attributo, quello della femminilità, che la Grande
54 U. Cordier, Guida ai luoghi misteriosi d Italia, Piemme, Casale Monferrato, (Al), 1997, p. 329.
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5
1
Dea estendeva a tutto l universo da Lei generato con uniformità di genere a lei propria. Per tal
motivo ogni concepimento era conseguente a quell autofecondarsi da se che avveniva in tutto il
percepibile ed il non percepito presente nell universo. Un autofecondarsi da se che si richiama e ci
richiama alla riproduzione protozoica per autoscissione. Un modello riproduttivo che si esprime
attraverso una concatenazione infinita di autoscissioni che, nel momento in cui inizia a perdere la
sua vitalità, si ravviva grazie allo scambio di sostanze interne che si attua fra queste cellule. Uno
scambio di sostanze che avviene fra cellule identiche alla cellula madre per cui questa singolare
pratica ripropone quel fecondarsi da se, operato, nella prassi concettuale, nella liturgia dalla Grande
Dea. Di conseguenza, da questa partenogenesi del monoteismo matriarcale, si avrà poi, sempre
all interno del matriarcato monoteista, l evoluzione concettuale dello hieros gamos eterosessuale.
Tale rivoluzione pote avvenire grazie alla presa di coscienza della paternità acquisita dall uomo. Ci
informa al proposito l antropologa inglese Reay Tannahill: Nulla ci fa supporre che l uomo,
neppure lontanamente, fosse conscio del proprio ruolo fisico nell atto del concepimento. Sembra
che questa consapevolezza si sia rivelata solo con l avvento dell agricoltura poco dopo il 10.000
a.C.: essa certo ebbe l effetto di rafforzare l ego maschile 55. La partenogenia rimarrà però fissata
nella mitologia del collettivo; una fissazione che si può facilmente intravedere nei reliquati
concettuali espressi nel mito. Infatti nel traslato evolutivo della partenogenesi si avrà un matrimonio
tra madre e figlio, nella fattispecie fra Gaia e Urano, nel quale il figlio maschio non è altro che il
frutto della partenogenesi materna. Con Cibele anche le divinità reggenti sono un reliquato
concettuale della partenogenesi del matriarcato monoteista della Grande Dea. Un reliquato che per
estensione ingloba non solo l insieme dei figli di sesso maschile ma anche quelli di sesso
femminile. Un sesso femminile espresso nell endiadi ideale e carnale della dea Luna e della dea
Venere. In sostanza, con il matriarcato monoteista, il concepimento è solo frutto della partenogenesi
mentre, nel politeismo androcratico, il femminino viene messo in minoranza pur conservando la
matriarca , saldamente nelle proprie mani, ogni potere ideale.
0.8 L analogia distorta fra il mito di Cibele e la teologia del cristianesimo
Risalendo ad epoche a noi più vicine, il Pantheon, unitamente ai suoi significanti più reconditi,
verrà donato intorno all anno 608 dall imperatore romano d Oriente Foca (602-610) a Papa
Bonifacio IV che: Guardava con desiderio quel capolavoro dell architettura antica che sembrava
possedere tutti i requisiti di una chiesa cristiana 56. Il tempio pagano sarà consacrato a chiesa
cristiana il 13 maggio del 609, in onore di S. Maria ad Martyres. Mille anni dopo, il corredo
bronzeo parietale posto all interno di questo tempio verrà barbaramente fatto fondere da Papa
Urbano VIII Barberini ed utilizzato dal Bernini per costruire il baldacchino di San Pietro e cannoni
per Castel S. Angelo. In quell occasione, sulla famosa statua parlante di Pasquino venne trovato,
ben a ragione, un cartello satirico che diceva in latino: quod non fecerunt barbari fecerunt
Barberini ossia ciò che non fecero i barbari, fecero i Barberini. Sull utilizzo di quel bronzo, usato
per realizzare il baldacchino di San Pietro, ci informa l illustre storico dell arte Ennio Francia:
Iniziata nel 1624 e terminata nel 1633, questa grandiosa opera fu commissionata all artista da papa
Urbano VIII Barberini: allo stemma del suo casato si riferiscono le api che, sparse dappertutto,
formano un motivo decorativo. Sotto il Baldacchino è l altare papale che si affaccia sulla
Confessione 57. Inoltre, per la maggior precisione dei particolari: le quattro colonne vitinee, in
5 5 R. Tannahill, Storia dei costumi sessuali, Rizzoli, Milano, 1985, p .5.
56 C. Rendina, I Papi, Newton Compton, Roma, 1983, p. 170.
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5 7 E. Francia, La Basilica di S. Pietro, De Agostini, Novara, 1983, p. 41.
58 E. Francia, La Basilica di S. Pietro, De Agostini, Novara, 1983, p. 34.
59 R. Del Ponte, La religione dei romani, Rusconi, Milano, 1992, pp. 262, 263.
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bronzo dorato, alte ben 20 m, sostengono un baldacchino, pure in bronzo dorato, dal quale scendono
frange e nappe a imitazione dei baldacchini portatili 58. Tutto ciò mette in estrema evidenza i
legami topici esistenti fra il culto di Cibele ed il culto cristiano, delineandone in un certo modo la
continuità ideale comune. Nei fatti il legame fra la basilica di S. Pietro, topicamente centro del
cattolicesimo, con il culto di Cibele ed Attis, si rivela ancora più stretto grazie ai reperti
archeologici ritrovati in un altro santuario di Cibele, denominato Phrygianum, situato, proprio
topicamente, nell area vaticana. Infatti, come ci informa Renato Del Ponte: Nel santuario della
Grande Madre al Phrygianum oggi sotto le fondamenta di San Pietro i dati epigrafici delle
iscrizioni commemorative ci parlano di riti effettuati ininterrottamente almeno sino al 390 59. Ai
legami topici, ora identificati nel loro essere comuni, tra Pantheon e Phrygianum, con la chiesa di S.
Maria ad Martyres e la basilica di S. Pietro, bisogna aggiungere quelli cultuali. Legami cultuali
esistenti, in vero od in apparenza, fra la Mater deum Cibele ed il figlio Attis con la Mater Dei
Maria ed il figlio Gesù. A quest ultima analogia, che è del resto impossibile sostenere, poiché
interviene fra personaggi inesistenti e personaggi storicamente esistiti, fece ben presto seguito un
aspro conflitto religioso. Ci aggiorna al proposito l antropologo James Frazer: Sembra, infatti,
secondo la testimonianza di un anonimo cristiano che scriveva nel secolo IV della nostra era, che
tanto i cristiani che i pagani erano colpiti dalla sorprendente coincidenza fra la morte e la
risurrezione delle loro rispettive divinità, e che questa coincidenza era oggetto di aspre controversie
fra i fedeli delle due religioni rivali: i pagani pretendevano che la risurrezione di Cristo era una
imitazione di quella di Attis; i cristiani asserivano con egual calore che la risurrezione di Attis era
una contraffazione diabolica di quella di Cristo. In queste dispute, non sempre cortesi, i pagani
avevano quel che a un osservatore superficiale potrebbe sembrare un grande vantaggio: poter
mostrare, cioè, che il loro dio era il più antico, e quindi probabilmente non era una contraffazione,
poiché come regola generale l originale è anteriore alla copia. Questa debole argomentazione i
cristiani la respingevano facilmente. Essi ammettevano infatti che secondo un ordine puramente
cronologico Cristo era la divinità più recente, ma dimostravano trionfalmente la sua reale priorità,
accusando la malizia di Satana, che in una occasione così importante aveva superato se stesso
invertendo l ordine usuale della natura. 60 Questo raffronto alquanto infelice proposto da James
Frazer non evidenzia il fatto che la nascita del Cristo non è altro che il confermarsi di ciò che già
molto tempo prima della comparsa del mito di Attis, veniva preannunciato in una serie di
innumerevoli citazioni all interno dell antico testamento. Inoltre ogni funambolismo retorico pro
Cibele, perde senso nel momento stesso in cui la realtà storica del cristianesimo e quella
immaginaria di Attis vengono messe a confronto fra di loro. È come operare un paragone fra
esistente ed inesistente o fra reale ed immaginario. Un immaginario frutto però di una allucinazione
delirante. Un reale ed un delirio che si ripresentano singolarmente altalenanti fra di loro. Infatti, per
ciò che riguarda la liturgia relativa al mito di Cibele ed Attis con quella cristiana dobbiamo
segnalare ulteriori coincidenze. Coincidenze di cui la prima è di carattere cronologico. Il dio Attis
risorgeva, tre giorni dopo la sua morte ogni anno il 25 marzo. Anche la resurrezione del dio
cristiano sembra che sia stata festeggiata nella stessa data. Ci precisa al merito Alfredo Cattabiani:
Secondo sant Agostino e San Cipriano, che registravano una tradizione diffusa fin dal
protocristianesimo, la prima Pasqua cristiana sarebbe caduta il 25 marzo, data che inglobava anche
la creazione del mondo e l incarnazione del Verbo con l Annunciazione 61. Quindi il Verbo si
Fra il 382 ed il 391 (di fatto sino al 394) si vivrà a Roma una situazione veramente insolita. Non esiste più culto di Stato, ma i collegi
sacerdotali continuano a sussistere e ad officiare i loro riti: le spese sono sopperite dall ingente patrimonio delle famiglie più ragguardevoli
dell aristocrazia senatoria. Nel santuario della Grande Madre al Phrygianum oggi sotto le fondamenta di San Pietro i dati epigrafici delle iscrizioni
commemorative ci parlano di riti effettuati ininterrottamente almeno sino al 390
60 J. Frazer, Il ramo d oro, Boringhieri, Milano, 1990, XXXVII. Religioni orientali in Occidente, vol. II, pp. 565, 566.
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5
6
6 1 A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, pp. 163, 164.
62 R.Aubert-G.Fedalto-D.Quaglioni, Storia dei Concili, San Paolo, Milano, 1995, p. 15.
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sarebbe incarnato nel giorno stesso in cui avvenne la sua resurrezione ossia il 25 marzo. In tal modo
si ha la coincidenza di due epifanie, quella dell incarnazione umana e quella della resurrezione
divina, in una stessa epifania cronologica. A tutti gli effetti la datazione del 25 marzo non era
univoca all interno della Chiesa. Infatti nella realtà documentale si riscontra che, per ciò che
riguarda la dibattuta questione della data della ricorrenza pasquale, la Pasqua stessa veniva:
Celebrata in tempi diversi secondo antiche tradizioni delle singole Chiese 62. Quindi nell impero
romano, la ricorrenza del 25 marzo, non essendo riconosciuta da tutte le Chiese, non poteva essere
considerata come canonica ed univoca. A proposito di questa vexata questio, proprio nel concilio
tenuto a Nicea a partire dal mese di maggio a quello di giugno dell anno 325, verrà stabilito il
criterio per la nuova datazione della ricorrenza pasquale valido a tutt oggi63. Allo stesso tempo, in
quel concilio, venne anche operato un netto distinguo per ciò che riguardava il rapporto con gli
accoliti del culto di Cibele ed Attis. Infatti, nell elenco dei canoni sanciti, leggeremo ciò che venne
stabilito a proposito di: quelli che si mutilano o permettono agli altri di farlo su di loro , nella
specifica leggeremo proprio nel primo canone: Se qualcuno è stato mutilato dai medici per una
malattia o menomato dai barbari, può restare nel clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è
evirato da se , costui, se appartiene al clero, conviene che ne sia escluso e in futuro nessuno che
abbia agito così sia ordinato. e evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che
deliberatamente compiono ciò e osano mutilarsi; se poi qualcuno fosse stato evirato dai barbari o
dai propri padroni, ma fosse degno sotto gli altri aspetti, i canoni lo ammettono nel clero 64. Appare
ben evidente che il riferimento a coloro che osano mutilarsi si riferisce ai fedeli del culto di Cibele
ed Attis. Il distinguo nei confronti degli stessi non era solo di carattere morale ma anche dottrinale,
viste le coincidenze riguardanti l evento rivelato della resurrezione e della salvazione. Un mistero
che coinvolgerà non solo il dio Attis ma anche i suoi credenti dopo la loro morte. Questa
concettualizzazione, però, si deve sempre al recupero dei reliquati cultuali legati al mito monoteista
primigenio della Grande Dea. Tale affermazione si rivela, nella sua evidenza, fra la molteplicità dei
miti, attraverso la redazione del paleoantropologo Terence Meaden: Nell epoca megalitica la
divinità femminile era onnipotente. Ella era l oggetto dell adorazione che condusse gli uomini a
muovere pietre e montagne, a erigere templi e santuari in suo onore. Ella era la Grande Dea. Come
prodotto della natura, ella simboleggiava la natura in tutti i suoi aspetti. Suo era il ciclo della vita da
cui nascevano gli esseri viventi dalla terra, e che alla terra tornavano al momento della morte per
rinascere nuovamente 65. Quindi nascita, morte e rinascita nella loro sequenza concettuale, anche se
logicamente diversificata nelle differenti liturgie, si itinerano dalla preistoria più antica per giungere
fino a noi passando attraverso il culto di Attis. Ci informa sui riti relativi a quest ultimo, l eminente
antropologo James Frazer: Una luce squarciava improvvisamente le tenebre; la tomba s era aperta:
il dio s era levato tra i morti; e mentre il sacerdote toccava le labbra degli adoratori piangenti con
del balsamo, sussurrava loro dolcemente la buona novella della salvazione. La resurrezione del dio
era accolta dai discepoli come una promessa che anche loro avrebbero trionfato sopra la corruzione
della tomba. 66
63 Eusebio Di Cesarea, Storia ecclesiastica e i Martiri della Palestina, trad. e note di G. Del Ton, Roma-New York 1964, 5,16, 5,23,24:
pp.
6 384ss,408ss.
64 R.Aubert-G.Fedalto-D.Quaglioni, Storia dei Concili, San Paolo, Milano,1995, pp. 277-278.
65 T. Meaden, Stonenghe, Armenia-CDE, Milano, 1998, pp. 20,21.
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6
6
6 6 J. Frazer, Il ramo d oro, Boringhieri, Milano, 1973, XXXIV. Il mito e il rituale di Attis, vol. I, p. 548.
67 Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 514.
Rimozione:
si attua nei casi in cui il soddisfacimento di una pulsione, atta di per sé a procurare piacere, rischierebbe di provocare del dispiacere rispetto
ad altre esigenze.
68 A. Cattabiani, Calendario, Rusconi Milano, 1989, p. 163.
1
La serie di analogie esistenti fra il culto di Attis e quello cristiano divenne motivo di forte
conflittualità, a tutt oggi causa di rimozione67. Una rimozione che però non riguarda il sicuro credo
del teologo, che rimane giustamente indifferente allo psicotico culto cibelico, ma che invece mette
sorprendentemente in grave difficoltà un certo intellettuale laico. Un laico che contrasta con vigore
la messa in evidenza del culto di Cibele ed Attis legando in tal modo, secondo un paradosso
inconcepibile, la psicopatologia del culto cibelico alla teologia cristiana. Questo laico compie un
errore madornale poiché non si rende conto che il cristianesimo non ha a che vedere con il delirante
culto di Cibele. Perciò, al contrario di questi intellettuali laici, la postanalisi, evidenziando la gravità
della psicopatologia cibelica, si trova in pieno accordo con il giudizio magistrale del teologo che
vede nel culto cibelico la più esplicita espressione della malizia di Satana (Cifr. G. Frazer). Infatti
l analogia dialettica fra la nomenclatura psicotica e quella satanica si mostra chiaramente in tutto il
suo parallelismo sinottico. Ciò che per il postanalista è l espressione della più grave psicopatologia,
per il teologo è l espressione più intensa del male diabolico. Attualmente, quello che si presenta
come evidente è l oblio completo della legenda di Cibele ed Attis. Un oblio che dimostra anche, in
se e per se, l inconsistenza esistente fra il confronto di un mito leggendario con quello della
teologia, che si configura nella realtà storica del cristianesimo. Se esiste qualche coincidenza
ideale, la potremmo rilevare, semmai, fra la Grande Dea pacifica e benefica attraverso il cardine
concettuale dell amore, sul quale si impernia il cristianesimo. Un amore, che al contrario è
denegato, ancor prima del concepimento dell essere umano, nella diabolica psicosi del culto
cibelico che ritroviamo all interno del complesso ad esso legato. Quindi l alterità concettuale tra
mito e religione si rivela pienamente: non può esistere legame fra Cibele e la storica testimonianza
evangelica. e proprio la raggiunta consapevolezza e coscienza di tale inconsistenza che dà ragione
al fatto che quel conflitto non avesse, e non possa avere, più ragione di esistere. Ci siamo soffermati
su questo punto poiché , nel momento stesso in cui l indagine postanalitica ha messo in luce il
complesso di Cibele, ha dovuto lottare contro una forte resistenza da parte di certi intellettuali laici.
Una resistenza che però, al contrario, non è mai stata riscontrata in ambienti cattolici nei quali, la
teorizzazione e la divulgazione del complesso in questione, è stata invece sollecitata. Anche
l antropologo Alfredo Cattabiani si conforma su tale linea concettuale. Scrive al proposito: Di
fronte a queste somiglianze con i riti pasquali si sarebbe tentati di parlare, come fece Simone Weil,
di un antico testamento pagano destinato ad essere illuminato e purificato dalla Rivelazione di
Cristo 68. Un antico testamento che vediamo legarsi con quello del pacifico matriarcato primigenio,
attraverso l universalità dell amore.
0.9 Cibele e la psicosi
Nel caso specifico del mito e del relativo complesso di Cibele, potremo affermare che sia il
complesso che il mito da cui deriva, si situano anche all interno di una ambivalenza fisiopatologica.
Il complesso di Cibele, con andamento fisiologico, sarà destinato a tramontare esattamente come
l Edipo. Un Edipo che dovrà: [...]cadere quando e perché ha fatto il suo tempo 69. Di pari passo
anche la maternizzazione fisiologica, geneticamente comune ad ogni madre che si occupa dei propri
figli, dovrà definirsi in una gaia autonomia psicofisica indotta nei figli e riscontrabile a sua volta
nelle madri. Una autonomia che chiaramente non significa la negazione di quel tenero legame
affettivo che unisce la madre ai figli ma che si esprime con la rinuncia, da parte della stessa, a quell
6
6
6 9 S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Il tramonto del complesso edipico (1924), vol. X, p. 28.
70 S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979 , Sulla psicoanalisi (1911), vol. VI, p. 496.
71 C. Müeller, Lessico di psichiatria, Piccin, Padova, 1980, Autolesionismo-Automutilazione, p. 93
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indotto espresso nel legame incestuoso condotto sui propri figli. Un legame incestuoso
sublimato ossia agito sul piano psicologico ma più devastante dell incesto fisico. Di fatto nella
persistenza patologica del complesso prevarrà il legame nevrotico perverso con la prole. Un legame
che potremmo definire anche come larvatamente o nascostamente psicotico a causa della violenza
psicologica onnipresente in esso. Nel contempo si renderà anche evidente che la pratica
dell evirazione e dell infibulazione psicologica agite, sia nel mito che nel complesso,
evidenzieranno la prevalenza del fattore psicopatologico. Le due coppie endiadiche
psicofisiologica-psicopatologica si renderanno all evidenza dell indagine psicoanalitica, nel senso
più esteso della parola. Infatti secondo Sigmund Freud: Il metodo d indagine psicoanalitico può
(...) essere ugualmente applicato alla spiegazione dei fenomeni psichici normali, e ha reso possibile
scoprire l intima relazione tra prodotti psichici patologici e strutture normali come i sogni, le
piccole sbadataggini della vita quotidiana, e fenomeni di gran valore come i motti di spirito, i miti e
le creazioni della fantasia 70. Se il mito di Cibele si rifà al sogno si potrà parlare, più propriamente,
di un incubo. Un incubo che vedrà al suo risveglio il corpo mutilato del miste , ossia dell accolito
del culto di Cibele ed Attis. Questa autotomia od automutilazione indotta non si presenta soltanto
come l attualizzazione di un sintomo nevrotico perverso, spinto fino all estremo, ma anche, o più
precisamente, come espressione, secondo la nosografia psichiatrica, di una sindrome schizofrenica.
Ci conferma al proposito l illustre psichiatra Christian Müller: Lo schizofrenico, sovrastato da
paure sessuali, per fuggire il contatto con l altro sesso, cerca una soluzione radicale
nell autocastrazione: con i mezzi spesso del tutto impropri questi pazienti si tagliano i testicoli, a
volte anche il pene; qualche volta riferiscono di aver agito per ordine di voci 71. Una voce che, nel
mito, è quella della Grande Madre che induce all autocastrazione i suoi accoliti attraverso mezzi
spesso del tutto impropri quali spezzoni di coccio di vasi o di tegole. Un evirazione od un
infibulazione che nella comune realtà dei fatti viene indotta dalla madre cibelica soprattutto sul
piano psicologico. La schizofrenia, di fatto, si sovrappone perfettamente, lettera per lettera, alle
movenze del culto cibelico. Quindi il complesso di Cibele, che deriva dal mito, si rivela essere non
solo il nucleo psicogeno dell endiadi nevrosi-perversione ma anche, e non solo larvatamente, come
quello su cui si fonda ogni psicosi, secondo la nomenclatura postanalitica. È questa una
concettualizzazione che trova un suo riscontro non solo nella nomenclatura psichiatrica ma anche in
quella psicoanalitica. Infatti, di concerto, le psicosi, secondo Laplanche-Pontalis, hanno una loro
ben precisa suddivisione, espressa anche nella schizofrenia: La psicanalisi non si è posta
direttamente il compito di costruire una classificazione comprendente la totalità delle malattie
mentali che lo psichiatra deve conoscere; l interesse si è rivolto dapprima alle affezioni più
direttamente accessibili all investigazione analitica e, all interno di questo campo più ristretto di
quello della psichiatria, le distinzioni fondamentali sono quelle tra perversioni, nevrosi e psicosi.
In quest ultimo gruppo, la psicoanalisi ha cercato di definire diverse strutture: paranoia (in cui essa
include generalmente le affezioni deliranti) e schizofrenia da un lato, malinconia e mania dall altro.
La teoria psicoanalitica individua fondamentalmente in una perturbazione primaria della relazione
libidica con la realtà il denominatore comune delle psicosi e considera la maggior parte dei sintomi
manifesti (costruzione delirante in particolare) con tentativi secondari di ripristino del legame
oggettuale .72 e ben chiaro quindi che la perturbazione primaria della relazione libidica avvenga,
o possa avvenire, assolutamente in primo, nel legame oggettuale che la madre ha con i propri figli.
Un legame nel quale la madre non permetterà il raggiungimento dell autonomia agli stessi. Un
legame che esprimerà in se e per se la più indicibile aggressività materna nei confronti della prole.
Un aggressività che trovò espressione nella costruzione psicotica del mito, del culto e della liturgia
di Cibele ed Attis.
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7
7 2 Laplanche-Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza, 1984, Voce: psicosi, pp. 439,340.
73 S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Capitolo 11. Aggiunte, A. Modificazione di vedute
già esposte, vol. X, p. 304.
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0.10 La Cibele dell indagine post analitica
Per ritornare all elaborazione del complesso di Cibele la stessa comportò una percorrenza
concettuale estremamente perigliosa. Innanzitutto ciò che emergeva nella pratica sperimentale della
psicoterapia che agivo via via nel tempo, era il constatare la forte presenza di un mimetismo
camaleontico messo in atto dalle madri cibeliche. Nel caso A, invece e fortunatamente per
l indagine psicologica, la madre si era espressa con un furore che potrebbe essere definito
tipicamente leonino. L effetto che ne derivava era quello di suscitare, proprio come nel carme di
Catullo, il terrore nella figlia al fine di farla rimanere per tutta la vita accanto a se. Nella maggior
parte dei casi, come verrà a noi esplicitato durante l esperienza professionale, la madre cibelica
opererà, quasi sempre, usando le più sofisticate tecniche del mimetismo psicologico e dell artefatto
retorico. Un chiaro esempio ci viene dal caso della suocera di Sigmund Freud interpretato dal padre
della psicoanalisi come un raffinato capriccio . Un capriccio che avrà come risultante il perenne ed
ambiguo stato di nubilato della figlia Minna Bernays. Questa finalità, ossia quella di determinare un
ambiguo stato di nubilato o di celibato, psicologico o fisico, nei figli anche sposati, verrà perseguita
in vario modo da tutte le madri cibeliche. La figlia o il figlio rimarranno sempre legati, anche se
fidanzati o sposati, in modo prioritario, al baricentro materno. I partners dei figli cibelizzati,
ristretti nello statuto di prole, saranno sempre figure di secondo piano. Il centro affettivo primario
rimarrà, perennemente per ognuno di loro, la madre. Un baricentro affettivo dichiarato apertamente
e senza ombra di dubbio, oppure celato nel segreto più intimo e nascosto. La madre cibelica, dal
canto suo, opera sempre con efficacia, seguendo modalità psicofisiche cruente o incruente. Nel caso
A le modalità erano, sia sul piano psicologico che su quello fisico, manifestamente cruente. Al
contrario dell esplicitazione diretta vi è anche una modalità isterica, quella del controinvestimento,
che si mimetizza attraverso un apparente eccesso di tenerezza ed apprensione. Ci esemplifica al
proposito Sigmund Freud: L isterica, per esempio, la quale tratta con eccessiva tenerezza i suoi
bambini che in fondo odia, non diventa per ciò in generale più disposta ad amare di altre donne, e
neppure più tenera nei confronti di altri bambini 73. Questa strategia perversa seguita dalla madre è
tesa ad operare in modo indiretto quella che in psicoanalisi viene definita come castrazione ma che
in postanalisi viene definita, a nostro avviso più propriamente, come evirazione od infibulazione
psicologica. Ambedue, sia l evirazione od, alternativamente, l infibulazione, sono chiaramente agite
su di un esclusivo piano psicologico. I mezzi di intervento, per fissare la suddetta psicopatologia,
sono però innumerevoli, mostrandosi come eterogenei od omogenei. Sono eterogenei esprimendosi
come escursioni bipolari oscillanti tra la violenza fisica e quella psicologica. Inoltre, all interno di
uno stesso polo, si potrà rilevare una forma cruenta omogenea prevalente, come ad esempio quella
delle percosse fisiche oppure quella dell aggressività psicologica. In ogni caso tali condotte come
accade nelle bipolarità perverse, come ad esempio quella del sadomasochismo, non saranno mai
fissate su di un polo unico ma oscillanti in relazione al contesto spazio/temporale nel quale si
verificano. Sul piano psicologico si riscontrerà, ad esempio, da parte della madre un atteggiamento
di seduzione manifesta od un eccessiva tenerezza, oppure un eccesso di apprensione o di
preoccupazione per eventi negativi. Tali atteggiamenti sono veri e propri utensili psicologici usati
come meri strumenti chirurgici per operare efficacemente quella raffinata evirazione od
infibulazione psicologica agita sulla prole. I termini evirazione od infibulazione psicologica
vengono usati perciò correntemente nella nomenclatura postanalitica in conseguenza dei riscontri
acquisiti grazie allo studio ed all indagine casistica.
Questa endiadi evirazione-infibulazione verrà agita, dalla madre cibelica, al fine di impedire al
figlio od alla figlia di allontanarsi o di sfuggire dal suo baricentro o centro di gravità affettivo. Un
centro di gravità delimitato da un confine invalicabile posto tutt intorno ai figli. Un pericentro che è
7
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quindi sinonimo, in se e per se, di un ben definito recinto virtuale il cui confine psicologico non
potrà mai essere varcato. Perciò tale pericentro diverrà il luogo dell eterna prigionia. Un luogo che
è, in se e per se, da una parte pseudorassicurante e dall altra luogo dell eterna angoscia. Di
conseguenza ogni volta che il figlio o la figlia si allontaneranno da quel pericentro andranno
incontro al panico, un panico che però si riaccenderà nel momento stesso in cui ritorneranno
all interno del pericentro gravitazionale dell aggressivo affetto materno. Inoltre nella serie di
automatismi che vengono attivati c è sempre, alla base, quel reduplicare il traumatismo iniziale
dell evirazione-infibulazione. In realtà la madre cibelica non è altro che una donna che da bambina,
durante la fase preedipica, ha subito l infibulazione psicologica da parte della madre. Una madre
che non le ha permesso in modo sostanziale di superare la fase preedipica. Per tal motivo si può
affermare che ogni madre cibelica è stata da bambina imprigionata nella fase preedipica. In pratica,
l infibulazione subita si reduplicherà in una serie infinita di concatenazioni che risalgono
all indietro nel tempo di figlia in madre, fino al passato più remoto del matriarcato androcratico. La
dinamica attraverso la quale viene trasmessa questa concatenazione si attiva durante la fase
preedipica della bambina come un vero e proprio imprinting . Un processo, quello
dell imprinting, che secondo l etologo H. Thomae è da considerare: [...] come un caso di
apprendimento naturale involontario, in cui il primo fatto da prendere in considerazione sarebbe non
tanto l unione di determinati contenuti di conoscenza in una precisa struttura comportamentale,
bensì la fissazione del comportamento in determinati schemi 74. Quindi la fissazione del
comportamento in determinati schemi finalizzati all evirazione, si inscriverà in modo indelebile,
nella personalità di base di ogni figlio della madre cibelica. Tale dinamica persisterà, per poi
reduplicarsi, di madre in figlia, interessando collateralmente anche il figlio di sesso maschile. Di
fatto evirazione ed infibulazione psicologica saranno prima subite durante la fase edipica e poi
reduplicate, durante la fase della vita sessuale matura, sulla prole. La figlia o, più precisamente, la
donna divenuta madre sarà quindi chiaramente, il tramite privilegiato e lineare del processo di
evirazione cibelica. Un processo di evirazione che, sotto il profilo filogenetico della partenogenesi,
ci rimanda, ancora una volta, alla riproduzione asessuata dei protozoi. Un processo di riproduzione,
quello protozoico, che si attiva per autoscissione in assenza del maschio. Un assenza
metaforicamente presente nel concepimento senza piacere della donna infibulata psicologicamente
dalla madre cibelica. Un assenza di piacere, e quindi di esclusione del maschio, che ci riporta
paradossalmente alla metafora della riproduzione asessuata. Il maschio infatti, nella proiezione
partenogenetica cibelica, sarà sempre precluso o reietto, sia in modo esplicito che implicito. Per
attualizzare tale esclusione, sul piano dell ambivalenza psicofisica, verranno utilizzati tutti gli
artefatti che permetteranno la messa in atto del rimando partenogenetico attivato nella strategia
cibelica. Nel complesso di Cibele è chiaro che vi sia un controinvestimento affettivo, a carattere
nevrotico che si propone, di riflesso, anche sul piano perverso e schizoideo della partenogenesi.
Questa prassi perversa è chiaramente descritta dalla psicoanalista Louise J. Kaplan: Incentrando la
propria vita sul figlio e i suoi desideri infantili, la madre bloccherà lo sviluppo sessuale e morale del
bambino. Inoltre, concentrando i propri desideri erotici sul figlio, presto o tardi la madre finirà per
rivendicare la propria menomata esistenza tormentando il figlio 75. La psicoanalista americana con
la sua perifrasi concettuale, contenente l indicazione attiva dell incentrare e del concentrare
psicopatologico, ripropone l indicazione di quel luogo che è stato da noi indicato come pericentro
affettivo invalicabile. In tale pericentro, vera e propria prigione psicologica o recinto coercitivo, il
figlio sarà tormentato dalla madre. Parimenti anche la figlia subirà lo stesso tormento divenendo
però il tramite attraverso il quale sarà reduplicato sulla prole l imprinting cibelico subito. Perciò in
automatico si assisterà al reduplicarsi dei processi dell inglobare e del circuire la prole alla quale
7 4 H. Thomae, Entwicklungspsychologie in Handbuch der Psychologie 3 , C.J.Hogrefe, Göttingen, 1954 , p. 242.
7 5 L. J. Kaplan, Perversioni femminili, CDE, Milano, 1992, p. 226.
76 S. Freud, in Opere, Boringhieri, Torino, 1979, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), Capitolo 11. Aggiunte, A. Modificazione di vedute
già esposte, vol. X, p. 304.
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sarà impedita la normale crescita psicologica ed il fisiologico sviluppo dell autonomia. All attività
perversa dell inglobare e del circuire farà da eco il sintomo principale e più conclamato dell isteria:
quello, paradossalmente più mimetizzato, dell odio. Scriverà al proposito Sigmund Freud: e molto
più difficile dimostrare il controinvestimento nell isteria, dove pure, in base alle aspettative
teoriche, esso è altrettanto indispensabile. Anche qui non si può non riconoscere una certa
alterazione dell Io determinata da formazioni reattive, e anzi in alcune circostanze questo fenomeno
è talmente vistoso da imporsi all attenzione come sintomo principale della malattia. In tale maniera
viene risolto, per esempio, il conflitto di ambivalenza nell isteria: l odio contro una persona amata
viene tenuto a bada con un eccesso di tenerezza e di apprensione per essa. Va notato, tuttavia, che a
differenza della nevrosi ossessiva queste formazioni reattive non mostrano la natura generale dei
tratti di carattere, rimanendo confinate ad alcuni particolari tipi di reazioni 76. Questa itinerazione
concettuale si riferisce chiaramente al rapporto di odio nascosto che ha ogni madre isterica con i
propri figli. Un odio ben presente, anche se ben camuffato, nella madre Cibele che induce e quindi
provoca l evirazione del figlio Attis. Di fatto è proprio nel complesso di Cibele che possiamo
rilevare la radice più nascosta dell odio. Un odio mimetizzato nel suo contrario più impensabile;
quello dell eccesso di tenerezza e di apprensione verso la prole. Un odio al contrario inesistente
nell iconografia e nel culto della Mater Dei cristiana il cui amore per il Figlio divenne il simbolo
più emblematico del cristianesimo. Un amore che distingueva anche la Grande Dea del matriarcato
pacifico primigenio che si contrappose invano all odio cibelico della Mater deum pagana. Una dea,
vera e propria icona diabolica, che perseguiterà perversamente, grazie al suo persistere
nell inconscio collettivo, tutta l umanità fino ad oggi. Se si considera che in ogni donna si situa il
centro psico-fisico e spazio/temporale del concepimento di ogni essere umano, possiamo renderci
conto dei danni che può provocare il complesso di Cibele nel delinearsi bio-sociale dell umanità.
Un danno che inizia con la nostra ontogenesi più remota ossia quella della vita fetale e che fissa la
nostra personalità di base durante la fase preedipica per poi reduplicarsi in aeternum di madre in
figlia. Pertanto il complesso di Cibele, della cui scoperta la postanalisi si fa vanto, diviene la chiave
di lettura di innumerevoli psicopatologie che ogni occhio attento può intravedere ed ora, dopo la
concettualizzazione postanalitica, evidenziare con chiarezza.
0.11 Dal pacifico matriarcato monoteista all aggressivo patriarcato politeista pagano
Il parallelismo fra la nostra ontogenesi psicologica con la filogenesi culturale della società
occidentale si presenta oltremodo singolare. La conflittualità emblematizzata della matriarca Cibele,
non esisteva nel periodo del matriarcato monoteista preistorico. La cronologia dell avvento della
violenza nel regno cultuale e culturale della Grande Dea ci viene presentata in tutta la sua precisa
definizione dalla più illustre paleoantropologa del ventesimo secolo, Marija Gimbutas77: Mentre le
culture europee trascorrevano un esistenza pacifica e raggiungevano una fioritura artistica e
architettonica altamente sofisticate nel V millennio a.C., una cultura neolitica assai diversa, in cui si
addomesticava il cavallo e si producevano armi letali, emergeva nel bacino del Volga, nella Russia
meridionale, e dopo la metà del V millennio, perfino a ovest del Mar Nero. Questa nuova forza,
inevitabilmente, cambiò il corso della preistoria europea. Io la chiamo la cultura Kurgan (In russo
Kurgan significa tumulo), poiché i morti venivano sepolti in tumuli circolari che coprivano gli
edifici funebri dei personaggi importanti. Le caratteristiche fondamentali della cultura Kurgan, che
risalgono al VII e VI millennio a.C. nell alto e medio bacino del Volga sono il: patriarcato;
patrilinearità; agricoltura su scala ridotta e allevamento di animali, compreso l addomesticamento
del cavallo a partire dal VI millennio; posizione preminente del cavallo nel culto; e, di grande
7
7 7 M. Gimbutas (1921-1994) : già docente di Archeologia dell Europa orientale-Harvard University e di Archeologia europea- università
della California Los Angeles.
2
rilievo, fabbricazione delle armi quali l arco e la freccia, la lancia e la daga. Elementi distintivi, tutti
che si accordano con quanto è stato ricostruito come fenomeno proto-indoeuropeo dagli studi
linguistici e di mitologia comparata e che si oppongono alla cultura gilanica, pacifica, sedentaria
dell antica Europa, caratterizzata da un agricoltura altamente sviluppata e dalle grandi tradizioni
architettoniche, scultoree e ceramiche.
Così i ripetuti tumulti e le incursioni dei Kurgan (che considero proto-indoeuropei) misero fine
all antica cultura europea all incirca tra il 4300 e il 2800 a.C., trasformandola da gilanica in
androcratica e da matrilineare in patrilineare. Le regioni dell Egeo e del Mediterraneo e l Europa
Occidentale si sottrassero più a lungo al processo; in isole come Thera, Creta, Malta e Sardegna
l antica cultura fiorì dando luogo a una civiltà creativa e invidiabilmente pacifica fino al 1500 a.C.,
mille-millecinquecento anni dopo la completa trasformazione dell Europa centrale. Nondimeno, la
religione della Dea e i suoi simboli sopravvissero, come una corrente sotterranea, in molte aree
geografiche. In realtà molti di questi simboli sono ancora presenti come immagini della nostra arte e
letteratura, motivi di grande suggestione nei nostri miti e negli archetipi dei nostri sogni. Viviamo
ancora sotto il dominio di quella aggressiva invasione maschile e abbiamo appena cominciato a
scoprire la nostra lunga alienazione dall autentica eredità europea: una cultura gilanica, non
violenta, incentrata sulla terra 78. Oltre all altissimo livello di civiltà espresso nel periodo del
matriarcato pacifico della Grande Dea, l assenza di guerre, e quindi di odio fra collettività
differenti, all interno di questa società pacifica, ci viene comprovata anche dall illustre genetista
Luca Cavalli-Sforza dell Università Californiana di Stenford: Abbiamo detto che mesolitici e
neolitici prosperavano in due ambienti diversi: agli uni serviva la foresta, agli altri terreno
favorevole all agricoltura, che si può ricavare da certi tipi di foresta abbattendone gli alberi.
All estrema periferia dell espansione, per esempio in Spagna e Danimarca, alcuni mesolitici
sopravvissero a lungo accanto ai primi neolitici, forse perché erano di costumi abbastanza avanzati
da non temere il confronto. Vi furono certamente numerosi contatti fra gli uni e gli altri, ma non ci
sono tracce sicure di conflitti. Gli agricoltori vivevano di solito in villaggi e in case singole senza
protezioni speciali, con palizzate tutt al più utili per trattenervi il bestiame. Solo millenni più tardi, e
soprattutto all epoca dei metalli, compaiono chiare postazioni difensive 79. Alla pacifica cultura
matriarcale faceva da eco un culto matriarcale ben specifico, quello della Grande Dea. Una Grande
Dea benefica che nella sua essenza positiva era esattamente l opposto contrario della Grande Madre
del politeismo androcratico pagano. Quindi, sotto il profilo storico, il rovesciamento della pacifica
cultura matriarcale fu determinato dall aggressiva invasione dei Kurgan che ribaltò la stabilità della
più longeva società umana. Una società caratterizzata da un armonica uniformità culturale, quella
del pacifico matriarcato. Di conseguenza i Kurgan furono la causa del rovesciamento cruento che
colpì in primo, fin nel più profondo, ogni donna e in secondo l organizzazione sociale centrata sul
pacifico matriarcato. È proprio da quel cruento traumatismo che ebbe inizio, per controreazione, e
poi per stabilizzazione, la psicopatologia cibelica. Una psicopatologia che si reduplicherà per via
matrilineare di madre in figlia, interessando collateralmente anche i figli di sesso maschile.
L evidenza che si presenta è che il matriarcato pacifico reduplicava la sua filosofia pacifica mentre
il matriarcato traumatizzato dai Kurgan reduplicava la filosofia aggressiva degli stessi. Una
reduplicazione che si manifesta ancora oggi in tutta la sua virulenza sia nel confronto cruento fra
società che nei confronti della natura. Questa psicopatologia dell aggressione è giunta fino a noi,
per traslazione di madre in figlia, esprimendo tutto il suo potenziale terrificante. Un potenziale che
interessa ogni conflittualità intrapsichica relativa ad ogni individuo. Un potenziale che si attiva fra
7 8 M. Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Longanesi, Milano, 1990, Introduzione, XX-XXI.
79 L. & F. Cavalli-Sforza, Chi siamo, Mondadori, Milano, 1995, p. 221.
80 G. Manzi, Argil, l antenato d Europa, in Le Scienze , 428/Aprile 2004, p. 53.
si candida come rappresentante dell umanità che diede origine alla divergenza evolutiva tra le linee del Neanderthal e di Homo sapiens
81 M. Gimbutas, Il Linguaggio della Dea, Longanesi, Milano, 1990, La vulva rigeneratrice: triangolo, clessidra e zampe di uccello, p.
237, vedi fig. n°369.
7
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individuo e individuo, fra classe sociale e classe sociale, fra collettività differenti, fra popoli diversi
ed infine, non per ultimo, fra essere umano e natura. Questo potenziale diabolico nel senso più
letterale della parola o della divisione o del contrasto aggressivo è giunto fino a noi a partire
dall invasione dei Kurgan. Ognuno di noi ne subisce, incontestabilmente, le conseguenze od in
riverbero, della stessa. e indubbio che, quanto detto, ha la sua rappresentazione simbolica nella
Grande Madre, presente all interno della cultura greco-romana nel binomio Gaia-Cibele. Alla
presenza di queste due matriarche, solo per qualche millennio, si contrappone l inimmaginabile
longevità della Grande Dea primigenia. Una presenza documentata a partire dal 500.000 a.C..
Grazie a questa datazione possiamo affermare che essa ha superato la barriera del tempo nella quale
si sono sviluppate tre differenti specie umane. Quella dell homo antecessor 80, dell homo sapiens e
dell homo sapiens-sapiens, a cui noi apparteniamo. Per ciò che riguarda il reperto archeologico che
dimostra innegabilmente l età della Grande Dea esso è costituito da una icona che ci viene descritta
dalla paleoantropologa Marija Gimbutas: Una pietra triangolare come simbolo della Dea o del suo
potere rigeneratore risale forse al paleolitico inferiore. Formati naturalmente o tagliati ad hoc, i
triangoli in selce, alcuni con i seni o la testa abbozzata al vertice del triangolo, si incontrano nei
depositi Acheuleani/Heidelberghiani dell Europa occidentale. Questa figura triangolare del
paleolitico inferiore, in selce staccata dal nodulo, è dotata di seni e reca le tracce dei colpi inferti per
modellare la testa, i seni, la vulva. Le sporgenze naturali sono state scheggiate per formare i seni. La
statuetta può reggersi su una superficie piatta. Ritenuta Heidelberghiana; datata, sulla base
dell associazione con utensili, probabilmente intorno al 500.000 a.C. 81. Quindi il culto della dea
Cibele fa da ponte, anche se cronologicamente di piccola entità, fra la cultualità preistorica più
arcaica con quella odierna della cattolica Mater Dei. Un ponte che unisce attraverso l uniformità di
genere tre differenti icone femminili ben diverse fra di loro. Un ponte sostenuto dalle analogie con
la Grande Dea paleolitica, da una parte, e con quelle relative alla nostra cultualità mariana,
dall altra. Cibele però rappresenta la parte più psicopatologica e nascosta o rimossa della nostra
cultura. e, nel contempo, l icona più rappresentativa della sofferenza femminile. e proprio su tale
realtà e sull indagine psicologica, operata sulla stessa, dalla postanalisi che si è definito il
complesso di Cibele. Rimarcando ancora, è proprio sulla psicogenesi cibelica che viene iterata ed
amplificata tutta la nostra ricerca in modo ampio e dettagliato. Una ricerca che ci permette di
affermare che ogni violenza subita dalla donna ha un riflesso negativo diretto ed immediato, così
esteso e profondo, in ogni società e cultura, da superare qualunque immaginazione.
La scoperta del complesso di Cibele è stata definita come rivoluzionaria nel campo della psicologia
dinamica e dell antropologia sociale. Apre un nuovo campo di ricerca e di analisi riguardando nel
contempo individuo e società del mondo attuale. Costituisce un presupposto ben visibile, una volta
identificato, ma che fino ad oggi è rimasto celato all interno del rimosso più tenace di ogni
individuo e collettività. Lo studio del complesso di Cibele si rivela come la ricerca più efficacie tesa
a migliorare e difendere lo status femminile della donna, della sua funzione materna, e di riflesso
dell umanità intera. La postanalisi, da sempre, propone, già prima di ogni altro, la parità delle quote
rosa in ogni Parlamento ed in tutte le istituzioni di ogni Stato, e la perfetta equiparazione dei diritti
fra donna ed uomo, tenendo, giustamente, conto delle differenze psicofisiche esistenti. La ricerca
postanalitica vuol rendere, in se e per se, un tangibile omaggio ad ogni donna ed ad ogni madre, nel
cui ventre fertile ogni essere umano viene concepito, nutrito e conformato, per poi essere partorito
alla luce della vita. Un omaggio che però vuol rimettere in discussione anche il ruolo fondamentale
di ogni uomo e di ogni padre, non più escluso o forcluso dall amore della propria donna.
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APENDICE
G. Valeri Catulli, Carmina, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria.
Super alta vectus Attis celeri rate maria
Phrygium ut nemus citato cupide pede tetigit
adiitque opaca silvis redimita loca deae,
stimulatus ibi furenti rabie,vagus animis,
devolsit ilei acuto sibi pondera silice.
Itaque ut relicta sensit sibi membra sine viro,
etiam recente terrae sola sanguine maculans
niveis citata cepit manibus leve typanum,
typanum toum, Cybelle,tua,mater,initia,
quatiensque terga taurei teneris cava digitis
canere haec suis adortast tremebonda comitibus.
<agite ite ad alta,Gallae,Cybeles nemora simul,
simul ite,Dindymenae dominae vaga pecora,
aliena quae petentes velut exules loca
sectam meam executae duce me mihi comites
rapidum salum tulistis truculentaque pelagi
et corpus evirastis Veneris nimio odio,
hilarate erae citatis erroribus animun.
mora tarda mente cedat:siml ite,sequimini
Phrygiam ad domun Cybelles,Phrygia ad nemora deae,
ubi cymbalum sonat vox,ubi tympana reboant,
tibicen ubi canit Phryx curvo grave calamo,
ubi capita Maenades vi iaciunt ederigerae,
ubi sacra sancta acutis ululatibus agitant,
ubi suevit illa divae volitare vaga cohors:
quo nos decet citatis celerare tripudiis>
Simul haec comitibus Attis cecinit notha mulier,
thiasus repente linguis trepidantibus ululant,
leve tympanum remugit,cava cymbala recrepant,
viridem citus adit Idam properante pede chorus.
furibunda simul anhelans vaga vadit,animan agens,
comitata tympano Attis per opaca nemora dux,
veluti iuvenca vitans onus indomita iugi:
rapidae ducem sequntur Gallae properipedem.
itaque ut domun Cybelles tetigere lassulae,
nimio e labore somnum capiunt sine Cerere.
piger his labante langore oculos sa por operit:
abit in quiete molli rabidus furor animi.
sed ubi oris aurei Sol radiantibus oculis
lustravit aethera album,sola,dura,mare ferum,
pepulitque noctis umbras vegetis sonipedibus ,
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ibi Somnus excitum Attin fugiens citus abiit:
trepidante eum recepit dea Pasithea sinu.
ita de quiete molli rapida sine rabie
simul ipsa pectore Attis sua facta recoluit ,
liquidaque mente vidit sine queis ubique foret,
animo aestuante rusum reditum ad vada tetulit.
ibi maria vasta visens lacrimantibus oculis,
patriam allocuta maestast ita voce miseriter.
<Patria o mei creatrix,patria o mea genetrix ,
ego quam miser relinquens,dominos,ut erifugae
famuli solent,ad idea tetuli nemora pedem,
ut aput nivem et ferarum gelida stabula forem
et earum omnia adirem furibunda latibula:
ubinam aut quibus locis te positam, patria,reor?
Cupit ipsa pupula ad te sibi dirigere aciem
rabie fera carens dum breve tempus animus est.
Egone a mea remota haec ferar in nemora domo?
Patria, bonis,amicis,genitoribus,abero?
Abero foro,palestra,stadio et guminasiis?
miser a miser,querentumst etiam atque etiam,anime.
Quod enim genus figuraest,ego non quod obierim?
Ego mulier ego adolescenz,ego epebhus,ego puer,
Ego gymnasi fui flos,ego eram decus olei:
mihi ianuae frequentes,mihi limina tepida,
mihi floridis corollis redimita domus erat,
linquendum ubi essert orto mihi sole cubiculum.
Ego nunc deum ministra et Cybeles famula ferar?
ego Maenas,ego mei pers,ego vir sterilis ero?
Ego viridis algida Idae nive amicta loca colam?
ego vitam agam sub altis Phrygiae columinibus,
ubi cerva sivicultrix,ubi aper nemorivagus?
Iam iam dolet quod egi iam iamque paenitet>
Roseis ut huic labellis sonitus <citus>abiit,
Geminas deorum ad aures nova nuntia referens
Ibi iuncta iuga resolvens Cybele leonibus
Laevemque pecoris hostem stimulas ita loquitur
<agedum>inquit <age ferox<i>fac ut hunc furor <agitet>
Fac uti furoris ictu reditum in nemora ferat,
mea libere nimis qui fugere imperia cupit.
Age caede terga cauda,tua verbera patere,
fac cuncta mugienti fremitu loca retonent,
rutilam ferox torosa cervice quate iubam>
ait haec minax Cybelle religatque iuga manu.
Ferus ipse sese adhortans rapidum incitat animo,
vadit ,fremit,refringit virgulta pede vago.
At ubi umida albicantis loca litoris adiit,
tenerumque vidit Attin prope marmora pelagi,
facit impetum :ille demens fugit in nemora fera:
ibi semper omne vitae spatium famula fuit.
Dea magna,dea Cybelle ,dea domina Dindymei,
procul a mea tuos sit furor omnis,era,domo:
alios age incitatos,alios age rabidos .
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G. Valerio Catullo, Poesie, LXIII, Super alta vectus Attis celeri rate maria.
Traduzione a cura di G. Chiarini, Frassinelli Editore, Milano, 2001.
Quando, varcati su celere nave i mari profondi, Attis
posò avidamente il piede impaziente nel bosco troiano
ed entrò nel folto, nel regno della dea recinto di selve,
qui, di furente rabbia ferito e la mente ondeggiante,
con selce affilata recise il peso del sesso.
Così, sentendo le membra svuotate del nerbo virile,
macchiando di sangue ancor fresco il suolo del luogo,
con candida mano prese, invasata, il tamburo leggero,
il tuo tamburo, Cibele, delle tue iniziazioni, oh madre,
e battendo con tenere dita la cava pelle di toro,
così prese a cantare fremendo con le compagne:
Su, andate, oh Galle, alle fonde selve sacre a Cibele,
andate, mandrie erranti della Signora del Dindimo,
voi che, cercando come esuli luoghi remoti,
la mia fede seguiste, compagne e ancelle ubbidienti,
acque vorticose sfidando e mari in tempesta,
e il corpo eviraste in odio a Venere, smisurato:
al cuor della dea date gioia con corse sfrenate.
Via ogni indugio dal cuore: andate tutte, seguitemi
alla frigia dimora di Cibele, ai frigi boschi della dea,
dove dei cembali la voce risuona, dove rombano i tamburi,
dove suona il frigio flautista note gravi con canna ricurva,
dove le Menadi squassano il capo d edera incoronato,
dove le sacre orge compiono con alti ululati,
dove la schiera errante della dea ama andar volteggiando:
là è bello affrettarci con danze impetuose .
Com ebbe così cantato alle amiche, Attis, donna incompiuta,
subito il tiaso ulula con lingua convulsa, muggisce
il tamburo leggero, tinniscono i cembali cavi, veloce
il coro si lancia verso l Ida frondoso con piede impaziente.
Folle anelante errabonda va Attis, tutta affannata,
le compagne col tamburo guidando per opaca foresta,
come giovenca non doma che rifugge dal peso del giogo:
rapide le Galle seguon la guida dal piede affrettato;
e quando di Cibele la casa raggiungono estenuate,
per troppa fatica son vinte dal sonno e non toccano pane.
Un pigro sopore suggella i lor occhi con esitante languore.
Il rapinoso furore si volge in placida quiete.
Ma come il Sole dal volto dorato con occhi raggianti chiarì
l albido cielo, la terra ferma, il mare selvaggio, e scacciò
2
le ombre notturne con gli zoccoli sonanti dei vivaci
destrieri, allora il Sonno fuggì veloce da Attis svegliata:
nel palpitante suo seno lo accolse Pasitea divina.
E come Attis dalla morbida pace senza focoso furore
riandò nel suo cuore a quanto le era accaduto,
e con lucida mente vide di cosa e dove fosse privata,
con animo in tumulto di nuovo al mare fece ritorno.
Lì, contemplando le vaste distese con occhi piangenti,
così mesta parlò alla patria con voce mesta:
Patria oh mia creatrice, patria oh mia genitrice,
che io infelice, lasciando come lasciano i padroni
i servi fuggiaschi, alle selve dell Ida mossi il piede
per trovarmi in mezzo alla neve e alle gelide tane di fiere
e cacciarmi in preda al furore nei lor nascondigli:
dove, in che luogo suppongo tu sia, oh mia patria?
Da se la pupilla rivolge bramosa lo sguardo in cerca di te,
nel breve intervallo in cui sgombra è la mente di rabbia.
Dovrò dunque aggirarmi in queste selve remote da casa?
Dovrò rinunciare alla patria, ai beni, agli amici, ai genitori?
o rinunciare al foro, alla lotta, allo stadio, alla palestra?
Infelice oh infelice, piangi ancora e ancora, anima mia.
Quale aspetto, qual forma non ho io già assunto?
Io son donna, io son stato ragazzo, io giovane e bimbo,
io fior degli atleti, io ornamento dei giochi:
per me le porte si aprivano, le soglie s empivano d ammiratori,
la casa già tutta era piena di corone fiorite
quando lasciavo, col primo sole, il giaciglio.
Sono io adesso invece ministra di dei e schiava di Cibele?
Io Menade, io parte di me, io uomo che non può generare?
Io abiterò le fredde cime nevose del verde Ida?
Io vivrò alle falde delle alte vette di Frigia,
regno della cerva silvestre, del cinghiale di macchia?
Di ciò che ho fatto adesso mi duole, si adesso mi pento .
Come tali suoni uscirono dalle labbra rosate,
alle orecchie degli dei portando l annuncio inatteso,
lesta Cibele disciolse i leoni aggiogati
e pungolando la belva di sinistra così parla:
Su, forza, va con ferocia, riempilo di follia,
fa che follia lo colga e rientri nei boschi,
lui che, libero oltre misura, vorrebbe sfuggire al mio imperio.
Su, con la coda flagellati i fianchi, battila fino al dolore,
fa che tutti i luoghi riecheggino del tuo fremente ruggito,
scuoti spietato la rossa criniera .
Così minaccia Cibele e libera il giogo.
La belva s esorta incitando il cuore selvaggio,
va, ruggisce, svelle i cespugli aggirandosi in caccia.
Ma come giunge alle umide piagge del lido lucente,
e gli appare la tenera Attis presso i flutti spumosi,
la assale. Quella fuggì dal terrore nel bosco selvaggio:
e lì per tutta la vita fu ancella della dea.
Dea grande, dea Cibele, dea signora del Dindimo,
lontano dalla mia casa stia, oh deasublimis veritas: l’essenza di Dio è il suo
essere, il che poi implica che, in ogni ente creato, l’essenza è altra
dell’essere. Tutte le sintesi teologiche dell’Angelico, e non solo loro,
contengono infatti una dimostrazione articolata di queste due tesi
architettoniche, e ne esplorano successivamente le conseguenze necessarie.
1 Fra quest’ultime, il filosofo interessato dal problema dell’agire
viene colpito da quelle che riguardano lo statuto ontologico del bene. Tre
sono le tappe seguite da Tommaso a questo proposito, nella prospettiva
sapienziale che fa contemplare l’ente dall’alto:
a. In Dio, l’identità di essenza e di essere fa sì che pure l’essere e la
bontà coincidono. In effetti, l’essere buono, per ogni cosa, significa
essere in atto; ora Dio non è solo il massimo ente in atto, ma è il suo
proprio atto di essere per essenza: perciò Dio non solo è buono, ma
è la bontà ed è la sua bontà.2
b. Coerentemente con la tesi precedente, la composizione reale
di essenza e di essere nell’ente per partecipazione richiede ch’esso
______
��Artículo recibido el 13 de noviembre de 2011 y aceptado para su publicación el 15 de
febrero de 2012.
1 Pro memoria, ricordiamo che la formula “hanc autem sublimem veritatem” si
riscontra in Contra Gentiles [d’ora in poi CG] I, c. 22, n. 30 (Marietti n. 211). I due
teoremi risolutivi della metafisica tommasiana vengono dimostrati, fra tanti altri luoghi,
in Scriptum super libros Sententiarum [d’ora in poi Scriptum] I, d. 8 q. 1,a. 1, in c; q. 5, a.
1, in c; CG I, c. 22; II, c. 52; Compendium theologiae, I, c. 11, e 68; Summa theologiae
[d’ora in poi ST] I, q. 3, a. 4; q. 44, a. 1.
2 Cf. CG I, c. 38; Compendium theologiae, I, c. 109; ST I, q. 6, a. 3.
10
Alain Contat
non sia e non possa mai essere identicamente ciò per cui è buono3,
poiché nessuna creatura è la sua attualità.
c. A questo punto, la cosa diventa più complessa. In un primo
momento, la riflessione metafisica riconduce il bene all’ente
attraverso questa sequenza: il bene è ciò che è appetitible; l’appetibilità
presuppone la perfezione; la perfezione si fonda sull’attualità;
l’attualità di ogni cosa proviene dallo esse. Ne risulta che
la bontà dell’ente si radica nel suo atto di essere, e ciò rientra nel
primato dello esse.4 In un secondo momento, però, san Tommaso
evidenzia un chiasmo fra l’ente ed il bene. Infatti, l’ente sostanziale,
per il suo atto di essere, è ente in senso assoluto (simpliciter), perché
è ciò che ha l’essere, mentre l’accidente e quindi l’operazione vengono
detti ente in senso relativo (secundum quid), perché non hanno
l’essere, ma piuttosto qualcosa è tramite loro. A rovescio, invece,
l’ente non può essere considerato buono in senso pieno, finché non
abbia raggiunto l’ultima perfezione di cui è capace e che non gli
viene dato dalla sua sostanza. Ci sono pertanto due gradi di bontà
in ogni creatura, quello primario e relativo (secundum quid)
consecutivo allo esse in quanto sostanziale, e quello ultimo e assoluto
(simpliciter) consecutivo all’operazione, che è un essere in atto
di tipo accidentale.5
Quindi abbiamo da un lato l’identità totale, in Dio, fra essere, essenza,
e bontà; mentre riscontriamo nella creatura due livelli di bontà successivi:
quello della bontà imperfetta che risulta dalla sostanza stessa; poi quello
della bontà perfetta che proviene dall’atto ultimo della cosa, raggiunto
tramite l’operazione più perfetta di cui è capace.
Nel Compendium theologiae, troviamo una prima analisi di questa
duplice differenza fra la bontà divina e la bontà creaturale. Dio è la sua
bontà, perché egli è il proprio essere, laddove la creatura ha sua bontà
sostanziale, perché essa ha il proprio essere, ma non lo è:
______
3 Cf. QD De veritate, q. 21, a. 5; Super librum Dionysii De divinis nominibus [d’ora in
poi De divinis nominibus] IV, l in c. 1.
4 Cf. ST I, q. 5, a. 1, in c, con il rimando a q. 3 a. 4 nonché a q. 4 a. 1 ad 3.
5 Su questo chiasmo fra le due coppie ens / bonum e simpliciter / secundum quid, cf. ST
I, q. 5, a. 1, ad 1.
11
Esse, essentia, ordo
cum forma et esse rei sit bonum et perfectio ipsius secundum quod in
sua natura consideratur, substantia composita neque est sua forma neque
suum esse; substantia vero simplex creata etsi sit ipsa forma, non tamen
est suum esse. Deus vero est sua essentia et suum esse.6
Inoltre, ogni creatura riceve la sua bontà operativa dal suo fine ultimo
che le è estrinseco, mentre la bontà divina, alla pari del suo essere con il
quale essa coincide, non è in nessun modo ordinabile ad un fine ulteriore:
Similiter etiam omnes creaturae consequuntur perfectam bonitatem
ex fine extrinseco. Perfectio enim bonitatis consistit in adeptione finis
ultimi. Finis autem ultimus cuiuslibet creaturae est extra ipsam, qui est
divina bonitas, quae quidem non ordinatur ad ulteriorem finem.
Di conseguenza, la bontà sostanziale non si distingue dalla bontà
operativa in Dio, giacché egli è la sua bontà per essenza; all’opposto, questi
due tipi di bontà esprimono, nella creatura, due livelli diversi e
gerarchizzati di partecipazione alla bontà divina:
Relinquitur igitur quod Deus modis omnibus est sua bonitas, et est
essentialiter bonus; non autem creaturae simplices, tum quia non sunt
suum esse, tum quia ordinantur ad aliquid extrinsecum sicut ad ultimum
finem. In substantiis vero compositis manifestum est quod nullo modo
sunt sua bonitas. Solus igitur Deus est sua bonitas et essentialiter bonus;
alia vero dicuntur bona secundum participationem aliquam ipsius.
La spiegazione dei due livelli di bontà creata fa quindi appello a due
registri certamente congiunti, ma distinti. Quello della differenza ontoteologica
fra lo Esse sussistente e lo esse partecipato giustifica la bontà sostanziale
dell’ente creato, mentre quello della causalità finale rende conto
della trascendenza del fine ultimo divino dal quale la creatura attinge la sua
bontà operativa. Ma come si collegano precisamente questi due registri? E
anzitutto perché la differenza ontologica fra l’ente per partecipazione e il
suo atto di essere, istituita dalla stessa creazione, richiede necessariamente
una seconda differenza, che di potrebbe chiamare operativa, fra la sostanza
______
6 Compendium theologiae, I, c. 109.
12
Alain Contat
dello stesso ente creato e la sua operazione, grazie alla quale esso giunge al
suo fine ultimo, che non può essere che estrinseco? Questa domanda
definisce lo scopo del presente studio, che mira quindi ad investigare il
nesso di consecuzione necessaria fra la composizione reale di essere e di
essenza nel supposito creato da una parte, e la distinzione successiva fra la
sua bontà sostanziale e la sua bontà operativa. Per risolvere correttamente
questo problema, procederemo in tre parti:
1. Nella prima, studieremo la causalità divina ed il suo riflesso
nell’ente creato, considerando principalmente l’impostazione della
dipendenza creaturale che ci offre san Tommaso stesso;
2. nella seconda, considereremo i guadagni teoretici espliciti che ci
presenta la metafisica dell’actus essendi elaborata da Cornelio Fabro per
quanto riguarda la comprensione dello exitus delle cose da Dio.
3. e nella terza parte, cercheremo di prolungare la ricca speculazione
fabriana in un’investigazione dei presupposti ontologici del reditus, che
stabilisca perché e come l’ente composto di esse e di essentia deve
ritornare a Dio attraverso il suo ordo dinamico al bene.
I. La triplice causalità divina e la triplice scansione dell’ente creato
Per il Dottore Comune, la “processione delle creature da Dio” —un
sintagma che non a caso rieccheggia le processioni trinitarie— si articola
secondo le tre causalità efficiente, esemplare e finale, che sono tutte le
causalità attuanti estrinseche. Esse giocano un ruolo strutturante nella
dinamica di tutto il segmento della Ia pars dedicato alla creazione, come
lo visse bene Ghislain Lafont7, il che rivela l’importanza che assumono
nell’ontologia tommasiano del creato. La triade agostiniana di modus,
species, ordo rimane invece marginale nell’opera dell’Aquinate, ed ha per
questa ragione attirato assai meno l’attenzione degli studiosi.8 Ciò no-
______
7 Cf. G. LAFONT, Structures et méthodes dans la “Somme théologique” de saint Thomas
d’Aquin, 151-171.
8 Un accenno molto significativo si riscontra in A. HAYEN, La communication de l’être
d’après saint Thomas d’Aquin, 114-115, ma l’A. non sviluppa il tema. Pure gli studiosi di
fine Novecento che ci hanno lasciato monografie peraltro assai interessanti sul rapporto
fra la sacra doctrina e l’ontologia dell’Aquinate non trattano il nostro problema, di cui non
abbiamo trovato traccie in G. MARENGO, Trinità e creazione, Indagine sulla teologia di
13
Esse, essentia, ordo
nostante, ci sembra che questa scansione sia riconducibile a quella di
esse, essentia, ordo oppure operatio, per cui essa appare allora come la
traccia, nel creato, della triplice causalità divina, cosicché merita assai di
essere approfondita. Tentiamo ora un primo abbozzo in questa direzione.
I.1. La triplice causalità divina
L’investigazione della causalità creatrice comincia quindi, nella
questione 44 della Summa theologiae, con la causalità efficiente. C’è
sicuramente un motivo teologico per questa scelta, giacché l’efficienza è
appropriata alla prima Persona divina, quella del Padre.9 Però non si può
dimenticare che la creazione essendo l’istituzione di un ente che deve il
suo essere a colui che ha l’Essere come nome proprio, l’Aquinate è
coerente con la propria teoresi quando studia in primo luogo la causalità
che si caratterizza prima di tutto per il dono dello esse. Pertanto il primo
articolo intende stabilire che Dio è causa efficiente di tutti gli enti. Il
respondeo imposta la dimostrazione sul principio di partecipazione, che
viene formulato qua in una proposizione condizionale:
Si enim aliquid invenitur in aliquo per participationem, necesse est
quod causetur in ipso ab eo cui essentialiter convenit.10
Ciò che è per partecipazione è necessariamente causato da ciò che è per
essenza: il rapporto verticale di partecipante a partecipato presuppone
nell’ordine reale un rapporto di causazione efficiente per cui ciò cui spetta
per essenza la perfezione da partecipare la produce nel partecipante.
L’evidenza di per sé immediata di questo assioma appare forse meglio gra-
______
Tommaso d’Aquino, né in D. DUBARLE, L’ontologie de Thomas d’Aquin. Lo studio di G.
ÉMERY, La Trinité créatrice: Trinité et création dans les commentaires aux Sentences de
Thomas d’Aquin et de ses précurseurs Albert le Grand et Bonaventure, dedica un capitolo
all’immagine ed al vestigio della Trinità; però non ne esplora le dimensioni propriamente
metafisiche, e limita comunque strettamente le sue investigazioni allo Scriptum. Quanto
all’opera di C. KALIBA, Die Welt als Gleichnis des dreieinigen Gottes, Entwurf zu einer trinitarischen
Ontologie, questo volume, che viene talvolta citato in ambito tomistico germanico,
è un saggio di ispirazione agostiniana, senza alcun apparato critico.
9 Cf. ST I, q. 39, a. 8, in c, “secundum quartam considerationem”.
10 ST I, q. 44, a. 1, in c.
14
Alain Contat
zie all’analogia secondo la quale il partecipante sta al partecipato come la
potenza all’atto, perché è ovvio che ciò che è in potenza non può essere
attuato, e quindi ricevere un atto partecipato, se non da ciò che possiede
questo atto in maniera non partecipata.11 Nel luogo che citiamo, il
principio di partecipazione viene adoperato in via iudicii, giacché si ha già
provato che Dio è l’essere sussistente, e che quest’ultimo può essere uno
solo, di tal guisa che la minore può sussumere che l’ente che non è Dio ha
l’essere per partecipazione.12 Quindi la conclusione pone che tutto l’ente
graduato secondo il più o il meno viene causato dall’ente che è al massimo
della perfezione, cioè dell’essere stesso, percorrendo in senso opposto
l’itinerario della quarta via:
Ostensum est autem supra cum de divina simplicitate ageretur, quod
Deus est ipsum esse per se subsistens. Et iterum ostensum est quod esse
subsistens non potest esse nisi unum [...]. Relinquitur ergo quod omnia
alia a Deo non sint suum esse, sed participant esse. Necesse est igitur
omnia quae diversificantur secundum diversam participationem essendi,
ut sint perfectius vel minus perfecte, causari ab uno primo ente, quod
perfectissime est.13
Dio è dunque causa efficiente dell’ente creato in quanto gli conferisce
uno esse partecipato.14 Ma Dio, come abbiamo appena ricordato, è Essere
______
11 Per l’analogia fra participans / partipatum e potentia / actus, considerata all’interno
dell’ente, cf. ST I, q. 75, a. 5, ad 4; Quaestiones de quolibet III, q. 8 a. 1c; De substantiis
separatis, c. 3.
12 In un precedente studio dedicato alla quarta via, abbiamo mostrato che il principio
di partecipazione è pure valido in via inventionis proprio quando verte sullo esse, perché
l’atto di essere fonda non soltanto l’intelligibilità dell’ente finito, ma appunto il suo...
essere. Cf. A. CONTAT, “La quarta via di san Tommaso d’Aquino e le prove di Dio di
sant’Anselmo di Aosta secondo le tre configurazioni dell’ente tomistico”, 139-150.
13 ST I, q. 44, a. 1, in c. Lo stesso percorso dimostrativo si riscontra in Compendium
theologiae, I, c. 69: “Adhuc. Omne quod habet aliquid per participationem, reducitur in
id quod habet illud per essentiam, sicut in principium et causam [...]. Ostensum est
autem supra, quod Deus est ipsum suum esse, unde esse convenit ei per suam essentiam,
omnibus autem aliis convenit per participationem: non enim alicuius alterius essentia
est suum esse, quia esse absolutum et per se subsistens non potest esse nisi unum, ut
supra ostensum est. Igitur oportet Deum esse causam existendi omnibus quae sunt”.
14 Cf. Lectura super Ioannem, c. 1, lc. 5, n. 133: “Creare autem est dare esse rei creatae”.
Vedasi pure Scriptum I, d. 37, q. 1, a. 1, in c. Per san Tommaso, è proprio l’essere
15
Esse, essentia, ordo
per essenza; ora, secondo un altro assioma omne agens agit simile sibi,
giacché l’agire transitivo consiste nel comunicare qualcosa della sua forma;
di conseguenza, il dono dello esse al di fuori di sé non è soltanto un effetto
di Dio, ma ne è l’effetto sia proprio che esclusivo, perché nessun altro ente
possiede l’essere come sua “forma” propria, come, secondo l’esempio utile
della fisica antica che spesso usa Tommaso in questo contesto, il calore è
l’effetto proprio ed esclusivo del fuoco.15 Dal lato opposto del rapporto
creaturale, l’ente per partecipazione deve tutta la sua perfezione
ontologica al suo atto di essere partecipato, che è “actualitas omnium
rerum, et etiam ipsarum formarum”16; perciò, non c’è nessuna attualità e
nessuna formalità, nell’ente, che non sia causata da Dio tramite lo esse e
quindi creata. La causalità efficiente divina, nel suo ordine, è totale,
poiché raggiunge così ogni particolare dell’ente creato, ch’esso sia
spirituale o materiale, nonostante la complessità delle forme accidentali o
la dispersione delle sostanze naturali nell’estensione materiale.17
Per caratterizzare questa universalità, estensiva e sopratutto intensiva,
della causalità creatrice nonché del suo effetto proprio, Cornelio Fabro ha
coniato le espressioni di “causalità trascendentale” e di “mediante
transcendentale”:
come tutti gli atti e tutte le perfezioni dell’ente sono attuate dall’esse
(partecipato) ch’è l’atto κατ' ἐξοχήν, atto e sempre atto e soltanto in atto
—sia pure per partecipazione— Dio, ch’è l’esse (per essenza) e quindi
causa propria diretta e immediata dell’esse partecipato è causa propria
diretta e immediata di tutti quegli atti e di tutte le perfezioni. Si ha quindi, e
non sarà detto mai abbastanza, che l’esse è veramente il principio “mediante
______
che consente al teologo di pensare l’atto creatore come donazione, contrariamente a
quanto viene postulato nell’opera di J.-L. MARION, ad es. in Le visible et le révélé, 88-96.
15 Cf. QD De potentia, q. 3, a. 4, in c: “Primus autem effectus est ipsum esse, quod omnibus
aliis effectibus praesupponitur et ipsum non praesupponit aliquem alium effectum;
et ideo oportet quod dare esse in quantum huiusmodi sit effectus primae causae
solius secundum propriam virtutem”. Vedasi anche CG III, c. 66, n. 4, e 7 (Marietti n.
2410 e 2413); ST I, q. 45, a. 5, in c; QD De potentia, q. 7, a. 2, in c; Quaestiones de quolibet
XII, q. 5, a. 1, in c, nonché Super Librum De causis, lc. 4, dove san Tommaso commenta
l’assioma neoplatonico “prima rerum creatarum est esse”.
16 È la notissima formula di ST I, q. 4, a. 1, ad 3.
17 Cf. CG III, c. 69, n. 9 (Marietti n. 2430): “Sed [Deus] immensitate suae virtutis attingit
omnia quae sunt in loco: cum sit universalis causa essendi, ut dictum est”.
16
Alain Contat
trascendentale” che fonda ed esige la causalità totale intensiva di Dio
rispetto alla creatura.18
In questa ottica, san Tommaso assume la tesi del Liber de causis per cui
“prima rerum creatarum est esse”, chiarificandone però il significato,
giacché lo esse che Dio produce è soltanto l’oggetto della sua causalità, e
non un soggetto che sussisterebbe da solo.19 Con questa precisazione, si
può affermare che la creazione verte sullo esse oppure sullo ens in quanto
commune, e questa tesi è infatti indispensabile all’intelligibilità del sapere
metafisico20; ma si tratta allora di un’oggettivazione del nostro pensiero,
che non si riscontra come tale nella realtà21: nell’ambito del creato, lo esse
non ha consistenza al di fuori dello ens in quanto hoc ens.
Ora un ente reale è sempre un ente “tale”, vogliamo dire un ente a proposito
del quale si può chiedere “cos’è per questo l’essere?”, cioè il quod quid
erat esse o quiddità.22 Per quanto concerne Dio stesso, la risposta non può
essere, per Tommaso, che Qui est, al di là di ogni finitudine. Trattandosi
invece del creato, ogni ente ha l’essere secondo una certa misura, che lo costringe
entro limiti definitori.23 Dunque all’universalis modus essendi dello
Esse subsistens si oppone il determinatus modus essendi dello ens per participationem24:
l’Atto puro di essere coincide con la sua essenza, mentre l’atto
______
18 C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 441.
19 Cf. ST I, q. 45, a. 4, ad 1: “cum dicitur, prima rerum creatarum est esse, ly esse
non importat subiectum creatum; sed importat propriam rationem obiecti creationnis”.
20 Cf. ST I-II, q. 66, a. 5, ad 4: “ens commune est proprius effectus causae altissimae,
scilicet Dei”.
21 Cf. CG I, c. 26, n. 5 (Marietti n. 241): “Quod est commune multis, non est aliquid
praeter multa nisi sola ratione: sicut animal non est aliud prater Socratem et Platonem
et alia animalia nisi in intellectu [...]. Multo igitur minus et ipsum esse commune est
aliquid prater omnes res existentes nisi in intellectu solum”.
22 Su questa interpretazione del το�� τι�� ἦν εἰ��ναι aristotelico, cf. A. DE MURALT in ARISTOTE,
Les Métaphysiques, Traduction analytique des livres Γ, Ζ, Θ, Ι, et Λ, 410: “La
célèbre expression to ti ên einai paraît obscure à beaucoup. Elle est pourtant d’une
grande simplicité. Elle est, sous forme substantivée et dans les mêmes termes, la réponse
à la question ‘qu’est ce que être (pour telle chose)’”.
23 Cf. la nitida formula di É. GILSON, “Éléments d’une métaphysique thomiste de
l’être”, 120: “Chaque quiddité est une certaine mesure de participation de l’esse, et finalement
de Dieu”.
24 Cf. De substantiis separatis, c. 8: “Sed considerandum est, quod ea quae a primo ente
esse participant, non participant esse secundum universalem modum essendi, secundum
17
Esse, essentia, ordo
partecipato di essere viene ristretto dalla sua essenza, che si comporta nei
suoi confronti come una potenza determinante, nel doppio senso di specificazione
e di limitazione. Così l’essenza gioca nell’ente per partecipazione il
ruolo del modulo che fissa l’intensità del suo essere, e con essa la sua costituzione
sostanziale. Pertanto, la creazione dell’atto di essere non può avvenire,
da parte del Creatore, senza un’idea che ne predetermini quel modulo e che
ne sia per così dire il modello increato. In breve, la causalità divina efficiente
coinvolge sempre la causalità esemplare.25 Nella Somma di teologia,
quest’ultima viene ricondotta alle idee divine, la cui realtà non differisce poi
dalla stessa essenza divina:
Haec autem formarum determinatio oportet quod reducatur, sicut in
primum principium, in divinam sapientiam, quae ordinem universi excogitavit,
qui in rerum distinctione consistit. Et ideo oportet dicere quod in
divina sapientia sunt rationes omnium rerum, quas supra diximus ideas, id est
formas exemplares in mente divina existentes. Quae quidem, licet multiplicentur
secundum respectum ad res, tamen non sunt realiter aliud a divina
essentia, prout eius similitudo a diversis participari potest diversi-mode.26
L’ente creato risulta quindi misurato sui due piani ontologici ai quali è
connesso. Sul livello immanente della propria consistenza creata, il suo atto
di essere è proporzionato a quella capacità di essere che è la sua essenza; e sul
livello trascendente del suo esemplare increato, lo stesso ente trova il suo
prototipo nell’idea divina, che è come la misura secondo la quale esso
partecipa in maniera finita alla pienezza infinita dell’essenza divina.
Partecipazione dell’ente creato all’Essere sussistente increato in virtù dell’efficienza
divina mediata dallo esse inerente nella sostanza; partecipazione
dell’ente creato all’Essenza increata in virtù dell’esemplarità divina oggettivata
nell’idea divina e mediata dall’essenza e dalle forme concrete: la
metafisica dell’exitus non può non chiedersi se le due causalità efficiente
ed esemplare fondano una sola oppure due distinte linee di partecipazione
fra la creatura ed il Creatore. Nella sua tesi del 1942, il Padre Louis-
______
quod est in primo principio, sed particulariter secundum quemdam determinatum
essendi modum qui convenit vel huic generi vel huic speciei”.
25 Cf. Scriptum I, d. 3, q. 3, a. 1, in c: “In intellectu enim divino similitudo rei intellectae
est ipsa divina essentia, quae est rerum causa exemplaris et efficiens”.
26 ST I, q. 44, a. 3, in c.
18
Alain Contat
Bertrand Geiger O.P. sosteneva che san Tommaso mette a fuoco due “sistemi
di partecipazione”, imperniati sui due coprincipi dell’ente, correlativi
alle due causalità divine. Rispetto all’efficienza creatrice, la donazione di
un atto di essere finito non può avvenire senza ch’esso venga “composto”
(cum-positum) con un’essenza che ne misuri l’intensità, differenziandola
ipso facto dall’infinità dell’Essere divino; così l’atto creatore istituisce un
primo tipo di partecipazione, che il Geiger chiama “partecipazione per
composizione”. Ora quest’ultima non avviene senza l’essenza, la quale non
è nulla; anzi, essa trova il suo modello nell’idea divina, che definisce a sua
volta il modo in cui l’ente finito rispecchia qualcosa dello splendore
proprio all’Essenza infinita. Ne consegue che la creazione implica un altro
tipo di partecipazione, designata come “partecipazione per somiglianza”.
Nonostante il primato dell’atto di essere sull’essenza, questa partecipazione
fondata sull’esemplarità pare al Geiger più originaria di quella derivata
dall’efficienza, perché solo il rapporto di somiglianza indica la “parte”
dell’Essere increato alla quale partecipa l’ente creato.27
Il P. Fabro respinge questa concezione di una doppia partecipazione28.
In effetti, già la nozione stessa di partecipazione implica la convergenza di
diversi soggetti nel ricevere una perfezione partecipata, e la loro divergenza
nel possederla in maniera intrinsecamente diversa e gerarchicamente
ordinata a seconda della capacità propria dei partecipanti, cosicché la somiglianza,
in quanto sintesi di identità e di differenza, non è un principio,
ma un risultato, la cui causa è la composizione stessa fra il partecipato ed il
partecipante: questo è simile al partecipato trascendente in virtù del partecipato
immanente, e non in virtù di sé stesso, cioè come recipiente ante-
______
27 Cf. L.-B. GEIGER, La participation dans la philosophie de S. Thomas d’Aquin, 36-73,
dove l’A. formula la posizione del problema, che ne comanda l’esito duale. Rileviamo a p.
65: “La limitation des formes est première dans son ordre, irréductible. On ne peut
espérer en rendre raison par l’appel à une composition avec d’autres éléments, ou à
l’inhérence dans quelque sujet, car ces éléments comme ce sujet doivent être eux-mêmes
déterminés et limités pour être, et leur limitation demanderait à être expliquée à son
tour”. Questa obiezione cade nel momento in cui l’essenza viene considerata per ciò che
è, cioè una potenza o capacità di essere, giacché il proprio di una potenza è di essere
limitante, non limitata.
28 Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 52-60; La
nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino, 26-29; “La determinazione
dell’atto nella metafisica tomista”, 331.
19
Esse, essentia, ordo
riore a ciò che riceve.29 Formalizzando il rapporto, si potrebbe dire che il
partecipante è tale solo in quanto sta sotto il partecipato che lo attua e
ch’esso restringe entro i suoi limiti. Nella partecipazione per antonomasia
che è quella dell’essere, bisogna quindi distinguere due momenti nella
considerazione dell’essenza: in sé stessa, essa non è ancora simile a Dio, ma
è come un grado, o una capacità di somiglianza; intuita invece in quanto
sta sotto il proprio esse, essa somiglia allora in atto al suo esemplare increato.
Postulare invece che l’essenza partecipi da sola all’Essenza divina porterebbe
in fondo a distruggere ogni partecipazione, giacché da un lato la
pluralità delle essenze diventerebbe un dato assoluto anziché una gerarchia
nell’avere parte all’essere, mentre d’altro lato lo esse venirebbe omologato
nella funzione di “far esistere” che non ammette gradi. Al contrario,
derivando la somiglianza dalla composizione, si capisce che l’ente per partecipazione
è tale nella misura stessa in cui riceve una “parte” dell’essere
che, in Dio, sussiste nella sua pienezza infinita. Dunque l’ente creato procede
sì dal Creatore secondo due linee causali, quella efficiente e quella
esemplare30; però una sola è la relazione di partecipazione dell’ente finito
all’Essere infinito, ed è la partecipazione che, risultando dalla composizione
dello esse —atto di essere creato con la sua essentia— potenza di
essere correlativa, fonda un rapporto di somiglianza fra questo ente e
l’Essere da cui proviene. La riflessione speculativa non deve lasciarsi ingannare
da una falsa simmetria fra le due coppie di causa efficiente / esse
creato da una parte, e di causa esemplare / essentia creata d’altra parte,
come se fossero autonome l’una rispetto all’altra. Infatti, né la potenza
divina produce alcunché al di fuori di Dio senza farlo secondo una idea,
né l’atto di essere creato può essere tale senza un’essenza che lo limiti e lo
specifichi, cosicché ciascuna di queste quattro istanze implica per sé le tre
altre, nonostante la distinzione reale fra i due co-principi dell’ente creato e
la distinzione nozionale delle due linee causali. Così la dipendenza creatu-
______
29 Cf. Scriptum I, d. 48 q. 1, a. 1, in c: “omne simile oportet esse compositum ex eo in
quo convenit cum alio simili, et ex eo in quo differt ab ipso, cum similitudo non sit nisi
differentium”.
30 Per san Tommaso, tutti gli attributi divini sono simultaneamente causa efficiente ed
esemplare delle loro somiglianze create, cominciando ovviamente dallo Esse identico in Dio
alla Essentia. Cf. Scriptum I, d. 10, q. 5, a. 1, ad 4: “omnia attributa divina sunt principium
productionis per modum efficientis exemplaris; sicut bonitatem omnia bona imitantur, et
essentiam omnia entia, et sic de aliis”; stessa dottrina in Scriptum I, d. 38, q. 1, a. 1, in c.
20
Alain Contat
rale subordina un ente in atto all’Essere che è il suo atto, di modo che il
rapporto di somiglianza si dà fra ciò che ha l’essere per partecipazione e
colui che è l’Essere per essenza, e non fra due essenze.31
Ma omne agens agit propter finem: per Tommaso, questa proposizione è
assiomatica, giacché l’agere richiede necessariamente la predeterminazione
dell’agendum, altrimenti il legame ontologico per se quarto fra l’agente e
l’effetto venirebbe meno, di tal guisa che, da una parte l’agente non si
muoverebbe, mentre d’altra parte l’“effetto” non sarebbe propriamente tale,
ma diventerebbe un puro evento concomitante, legato solo per accidens a
ciò che lo precederebbe.32 Pertanto, pure la creazione degli enti risponde ad
un fine; però Dio essendo atto puro, l’atto creatore non gli può ovviamente
aggiungere alcuna attualità ulteriore, ma comunica gratuitamente qualcosa
della sua bontà alla creatura, la quale trova invece la sua perfezione nel
congiungersi al principio dal quale procede:
Est autem idem finis agentis et patientis, inquantum huiusmodi, sed
aliter et aliter: unum enim et idem est quod agens intendit imprimere, et
quod patiens intendit recipere. Sunt autem quaedam quae simul agunt et
patiuntur, quae sunt agentia imperfecta; et hic convenit quod etiam in
agendo intendant aliquid adquirere. Sed primo agenti, qui est agens tantum,
non convenit agere propter acquisitionem alicuius finis; sed intendit
solum communicare suam perfectionem, quae est eius bonitas. Et unaquaeque
creatura intendit consequi suam perfectionem, quae est similitudo
perfectionis et bonitatis divinae. Sic ergo divina bonitas est finis rerum
ómnium.33
______
31 Cf. Scriptum II, d. 16, q. 1 a. 1, ad 3: “convenientia potest esse dupliciter: aut duorum
participantium aliquod unum, et talis convenientia non potest esse Creatoris et
creaturae, ut objectum est; aut secundum quod unum per se est simpliciter, et alterum
participat de similitudine ejus quantum potest; ut si poneremus calorem esse sine materia,
et ignem convenire cum eo, ex hoc quod aliquid caloris participaret: et talis convenientia
esse potest creaturae ad Deum, quid Deus dicitur ens hoc modo quod est ipsum
suum esse; creatura vero non est ipsum suum esse, sed dicitur ens, quasi esse participans;
et hoc sufficit ad rationem imaginis”. Questo ragionamento evidenzia bene che il rapporto
di somiglianza che unisce la creatura al Creatore si gioca sullo esse, e non primariamente
sull’essenza ut sic come presupponeva il P. Geiger.
32 Cf. al riguardo CG III, c. 2, in particolare n. 8 (Marietti n. 1825); ST I-II, q. 1, a. 2,
in c; Expositio Libri Posteriorum, I, l in c. 10, l. 122-135.
33 ST I, q. 44, a. 4, in c.
21
Esse, essentia, ordo
Quindi lo exitus a principio della sostanza creata porta con sé l’esigenza
ontologica del reditus in finem: la donazione dell’essere all’ente si compie
nel ritorno del donatario al donatore attraverso la fecondità del dono, che
spinge il supposito creato al proprio perfezionamento. Così, se la creatura
si riferisce a Dio secondo un nesso di provenienza, come un ente per partecipazione
all’Essere per essenza, allora la stessa creatura sarà ordinata a
Dio come un bene per partecipazione alla Bontà per essenza secondo un
nesso di finalità. L’ente per partecipazione rimanda a Dio come primo
efficiente in quanto il suo atto di essere viene composto con la sua essenza,
ed a Dio come primo esemplare in quanto lo stesso esse viene misurato
dall’essenza concreata; adesso il medesimo ente per partecipazione rimanda
a Dio come ultimo fine in quanto la sua bontà particolareggiata perché
partecipata è di per sé ordinata alla bontà per essenza dell’Essere sussistente.
34 Questa terza linea causale fonda un nuovo aspetto della partecipazione,
che si palesa come assimilazione non più statica, ma dinamica della
creatura al Creatore.
Come si articola questa teleologia con la partecipazione costitutiva dell’ente
creato, quella radicata nel plesso di essere e di essenza? Nella questione
44 dedicata alla triplice causalità creatrice, l’Angelico concepisce
l’appetito di ogni cosa per il suo fine come un “partecipare la somiglianza
divina”, mediato dalla tensione verso il proprio bene, ricorrendo quindi
alla nozione di partecipazione anche nell’ambito della finalità divina.35
Premettendo che la ratio boni esplicita la ratio entis aggiungendovi
l’appetibilità, che è proporzionale all’attualità36, possiamo fondare l’ordo
ad bonum della creatura nella sua ordinazione all’atto in quanto perfetti-
______
34 Cf. ST I, q. 103, a. 3, in c: “Manifestum est enim quod bonum habet rationem finis.
Unde finis particularis alicuius rei est quoddam bonum particulare: finis autem universalis
rerum omnium est quoddam bonum universale. Bonum autem universale est quod
est per se et per suam essentiam bonum, quod est ipsa essentia bonitatis: bonum autem
particulare est quod est participative bonum. Manifestum est autem quod in tota universitate
creaturarum nullum est bonum quod non sit participative bonum. Unde illud
bonum quod est finis totius universi, oportet quod sit extrinsecum a toto universo”.
35 Cf. ST I, q. 44, a. 4, ad 3: “omnia appetunt Deum ut finem, appetendo quodcumque
bonum, sive appetitu intelligibili, sive sensibili, sive naturali, quia est sine cognitione: quia
nihil habet rationem boni et appetibilis, nisi secundum quod participat Dei similitudinem”.
Sottolineiamo la necessità del nesso fra la ratio boni e la partecipazione assimilativa a Dio.
36 Cf. De divinis nominibus, IV, lc. 1: “unumquodque enim bonum est, secundum
quod est res actu”.
22
Alain Contat
vo. Ora, l’analisi metafisica ci consente di distinguere tre livelli di attualità
effettiva nell’ente finito: quello che risulta dall’essenza sostanziale in atto;
poi quello che integra successivamente le forme accidentali, e specialmente
gli habitus, grazie ai quali la cosa è pienamente costituita in actu primo;
e finalmente quello che viene raggiunto tramite le operazioni, ed in particolare
quella più perfetta nella facoltà più elevata, in cui ogni sostanza
creata trova la sua perfezione ultima in actu secundo. Il ritorno della creatura
a Dio si scandisce quindi secondo i tre gradi sovrapposti dello esse
sostanziale, dello esse superadditum degli accidenti, nonché dell’operari37,
oppure, in maniera più sintetica, secondo i due livelli di bontà creata, il
cui primo corrisponde alla natura della cosa integralmente considerata, ed
il cui secondo corrisponde all’esercizio della sua virtù operativa.38 Esseoperari:
la partecipazione vista alla luce della causalità finale assume la
dimensione della forma o essenza reale, ma la supera verso quella dell’attività,
che sia transitiva oppure immanente, cosicché la somiglianza
che unisce il partecipante creato al partecipato increato appartiene al registro
dell’atto più che a quello del contenuto, a differenza della somiglianza
istituita dal rapporto di esemplarità. Certamente, si tratta di momenti
complementari, e non opposti, poiché la quiddità della cosa è
subordinata al suo essere in atto, mentre viceversa l’operazione riceve comunque
la sua qualificazione prima dal soggetto dal quale procede, poi
dall’oggetto ch’essa guarda. Nondimeno, la partecipazione vista alla luce
dell’esemplarità evidenzia il rapporto che vige fra il “cos’è” dell’ente, e il
suo archetipo divino, cosicché si tratta allora del contenuto dell’essere
partecipato, mentre la partecipazione colta nella prospettiva del fine manifesta
il “perché” dell’ente, mostrando ch’esso è per la sua operazione in
cui trova la sua ultima bontà immanente, poi che entrambi, operante ed
______
37 Cf. CG III, in c. 20, n. 8 (Marietti n. 2016): “manifestum est enim quod res ordinantur
in Deum sicut in finem non solum secundum esse substantiale, sed etiam secundum
ea quae ei accidunt pertinentia ad perfectionem; et etiam secundum propriam
operationem, quae etiam pertinet ad perfectionem rei”.
38 Sulla duplex bonitas dell’ente creato, cf. la Expositio libri Boetii De ebdomadibus, l in
c. 4: “in bonis creatis est duplex bonitas, una quidem secundum quod dicuntur bona per
relationem ad primum bonum, et secundum hoc et esse eorum et quicquid in eis est a
primo bono est bonum; alia uero bonitas consideratur in eis absolute, prout scilicet
unumquodque dicitur bonum in quantum est perfectum in esse et in operari, et hec
quidem perfectio non competit bonis creatis secundum ipsum esse essenciale eorum, set
secundum aliquid superadditum quod dicitur uirtus eorum”.
23
Esse, essentia, ordo
operare, sono per Dio, Bontà trascendente. Così disponiamo di un primo
abbozzo di risposta al nostro quesito: componendo un atto di essere con
un’essenza39, la creazione istituisce un ente che, da un lato, è uno ed è identico
a sé, perché la sua quiddità fa che il suo essere in atto sia un essere
determinato, ma che, d’altro lato, differisce dal proprio atto di essere, il
quale tende ad espandersi in operatività, ovviamente nei limiti consentiti
dalla propria essenza. La chiave del nostro problema sta quindi
nell’“emergenza” dello esse al di sopra dello ens ch’esso fa essere. Ricevuto
nell’essenza, questo atto di essere detiene una virtus o “energia” ontologica
che non si esaurisce nell’attuazione di una determinata sostanza, ma —sit
venia uerbi— straripa, “emerge” appunto al di là dei limiti della quiddità
sostanziale, e pertanto riemerge nelle operazioni del supposito.
I.2. I vestigi della causalità divina nel supposito creato
La partecipazione dell’ente creato all’Essere increato include quindi tre
dimensioni, quella dello esse misurato dalla correlativa essenza, quella della
stessa essenza in atto per lo esse, e quella dell’inclinazione all’operare per
cui la sostanza tende alla propria perfezione. Questa ternarietà si ritrova in
due triadi alle quali accenna l’Aquinate. La prima, che è di matrice agostiniana,
viene esplicitamente riferita alla triplice causalità divina:
creatura dicitur bona secundum respectum ad Deum, sicut vult Boetius
in libro De hebdomadibus; sed Deus habet ad creaturam habitudinem triplicis
causae, scilicet efficientis, finalis et formalis exemplaris; ergo et creatura
dicitur esse bona secundum habitudinem ad Deum in ratione triplicis
causae; sed secundum hoc quod comparatur ad Deum ut ad causam
efficientem habet modum sibi a Deo praefixum; ut autem comparatur ad
eum ut [ad] causam exemplarem habet speciem; ut autem comparatur ad
eum ut ad finem habet ordinem; ergo bonum creaturae consistit in modo,
specie et ordine.40
______
39 Ricordiamo che l’efficienza divina crea non soltanto l’atto di essere, ma pure l’essenza
che lo specifica. Cf. QD De potentia, q. 3, a. 5, ad 2: “ex hoc ipso quod quidditati esse attribuitur,
non solum esse, sed ipsa quidditas creari dicitur: quia antequam esse habeat, nihil
est, nisi forte in intellectu creantis, ubi non est creatura, sed creatrix essentia”.
40 QD De ueritate, q. 21, a. 6, sc. 3.
24
Alain Contat
Per giustificare questa corrispondenza, san Tommaso comincia per
ricordare nel respondeo che la nozione di bene (ratio boni) significa non solo
il “rapporto di ciò che perfeziona” (respectus perfectivi), ma “ciò a cui segue il
rapporto con il rapporto stesso” (id ad quod sequitur respectus cum respectu
ipso), cioè il supposito in quanto è ordinato alla propria perfezione. Ora il
supposito creato viene istituito da un atto di essere ricevuto secondo una
certa misura, che è precisamente la sua specie, mentre ad entrambi, essere
finito e specie, segue l’inclinazione o respectus alla perfezione:
Cum autem creaturae non sint suum esse, oportet quod habeant esse
receptum et per hoc earum esse est finitum et terminatum secundum
mensuram eius in quo recipitur.
Sic igitur inter ista quae Augustinus ponit, ultimum, scilicet ordo, est respectus
quem nomen boni importat, sed alia duo, scilicet species et modus,
causant illum respectum. Species pertinet ad ipsam rationem speciei, quae
quidem secundum quod in aliquo esse habet, recipitur per aliquem modum
determinatum, cum omne quod est in aliquo sit in eo per modum recipientis.
Ita igitur unumquodque bonum, in quantum est perfectivum secundum rationem
speciei et esse simul habet modum, speciem et ordinem: speciem quidem
quantum ad ipsam rationem speciei, modum quantum ad esse, ordinem
quantum ad ipsam habitudinem perfectivi.41
In sintesi, il modus è quindi lo stesso esse in quanto misurato; la species è
la misura (mensura) che determina, o “finisce” lo esse; e l’ordo è
l’inclinazione ulteriore alla perfezione (habitudo perfectivi) che viene
causata dalla sostanza costituita dallo esse e dalla sua misura specificante.
Da questa rilettura della triade agostianana all’interno dei parametri della
metafisica tommasiana dell’essere, dobbiamo ritenere in primo luogo
l’inseparabilità del modus e della species, rispettivamente fondati sullo esse e
sulla essentia, poi, in secondo luogo, il nesso causale (species et modus
causant illum respectum) che collega il plesso di specie e di essere al
rapporto di perfettibilità. L’Aquinate non precisa la natura esatta di questa
causalità, ma è ovvio che si tratta della finalità, e ch’essa si radica nella
sostanza secondo il quarto modo di perseità.42
______
41 Ibidem, in c.
42 Ricordiamo che una proposizione è per se quarto modo quando essa esprime un nes25
Esse, essentia, ordo
Il luogo parallelo della Summa theologiae è meno rilevante ai fini della
presente investigazione, perché lascia lo esse nell’ombra, e si concentra
sulla forma, che si deve intendere come forma in atto (e sappiamo che lo è
per l’atto di essere). Essa viene significata dalla specie, mentre il modo è
ciò che si richiede a parte ante per la sua costituzione, e l’ordine ciò che ne
risulta a parte post.43 Invece, la dottrina dei vestigia Trinitatis ci offre, nella
stessa Summa, uno scorcio di alto interesse teoretico. Ecco il brano:
in creaturis omnibus invenitur repraesentatio Trinitatis per modum
vestigii, inquantum in qualibet creatura inveniuntur aliqua quae necesse est
reducere in divinas Personas sicut in causam. Quaelibet enim creatura
subsistit in suo esse, et habet formam per quam determinatur ad speciem, et
habet ordinem ad aliquid aliud. Secundum igitur quod est quaedam
substantia creata, repraesentat causam et principium: et sic demonstrat
Personam Patris, qui est principium non de principio. Secundum autem
quod habet quandam formam et speciem, repraesentat Verbum, secundum
quod forma artificiati est ex conceptione artificis. Secundum autem quod
habet ordinem, repraesentat Spiritum Sanctum, inquantum est Amor: quia
ordo effectus ad aliquid alterum est ex voluntate creantis.44
Questo testo presenta simultaneamente due difficoltà, l’una epistemologica
e l’altra contenutistica. Si tratta infatti di un’analogia tipica della
sacra doctrina, che elenca fra le sue procedure la ricerca di somiglianze fra i
misteri rivelati e le speculazioni dei filosofi, presupponendo ovviamente
l’assenso di fede.45 E nella fattispecie, la tesi proposta è un rapporto di
______
so di causalità estrinseca, efficiente o finale, fra il soggetto ed il predicato. Cf. al riguardo
Expositio libri Posteriorum, I, l in c. 10, n. 7, l. 122-135.
43 Cf. ST I, q. 5, a. 5, in c, e pure I-II, q. 85, a. 4, in c.
44 ST I, q. 45, a. 7, in c.
45 Cf. Super Boetium De Trinitate, q. 2, a. 3, in c: “Sic ergo in sacra doctrina philosophia
possumus tripliciter uti: […] secundo ad notificandum per aliquas similitudines ea
que sunt fidei, sicut Augustinus in libro De Trinitate utitur multis similitudinibus ex
doctrinis philosophicis sumptis ad manifestandum Trinitatem”. Questo procedimento
analogico può rientrare nel “quomodo sit verum” delle Quaestiones de quolibet IV, q. 9 a.
2c: “Quaedam vero disputatio est magistralis in scholis non ad removendum errorem,
sed ad instruendum auditores ut inducantur ad intellectum veritatis quam intendit: et
tunc oportet rationibus inniti investigantibus veritatis radicem, et facientibus scire quomodo
sit verum quod dicitur”.
26
Alain Contat
origine a vestigio fra le Persone divine da un lato, e le tre istanze
ontologiche della sostanza creata d’altro lato. Per poter utilizzare questo
argomento in sede di metafisica, dobbiamo quindi “sottrarre” ciò che vi è
di esclusivamente rivelato nella serie superiore delle tre somiglianze. Si
può operare questo trasferimento epistemico se si restringe il campo delle
analogie agli attributi divini essenziali che vengono, nel testo citato,
appropriati alle Persone.46 Ora il Padre viene designato come causa, il che
rimanda all’agente efficiente non effettuato; il Figlio come “concezione
dell’artefice”, il che evoca l’esemplarità non esemplificata dell’essenza
divina inquanto locus idearum; e lo Spirito Santo come Amore, il che
implica il primo principio finalizzante non finalizzato. All’interno di
questa prospettiva limitata all’ambito della ragione, otteniamo allora la
seguente tavola:
vestigio riferimento del vestigio causalità divina
substantia creata:
subsistit in suo ese
repraesentat
causam et principium
(non de principio)
causalità
efficiente
non effettuata
habet formamper quam
determinatur
ad speciem
secundum quod
forma artificiati est
ex conceptione artificis
causalità
esemplare
non esemplificata
habet ordinem
ad aliquid aliud
ordo effectus
ad aliquid alterum
ex voluntate creantis
causalità
finale
non finalizzata
Analizziamo brevemente i singoli contenuti di questa scansione ternaria.
Alla pari del modus della triade agostiniana, si inizia dalla creatura in
rapporto alla causalità efficiente divina attraverso il suo esse ricevuto.
Questa volta, però, il paragone viene esplicitamente costruito a partire
______
46 Per la nozione teologica di appropriazione, cf. ST I, q. 39, a. 7; e per un quadro sistematico
delle appropriazioni, ibidem, a. 8.
27
Esse, essentia, ordo
dalla sostanza, descritta come ciò che sussiste nel proprio essere. In effetti,
san Tommaso assume la tradizione aristotelico-avicenniana per cui la
sostanza va descritta come “res cuius naturae debetur esse non in alio”47,
opponendosi all’accidente, che è invece una “res cuius naturae debetur esse
in alio”, lo esse essendo inteso nelle due descrizioni come essere-in-atto. La
sostanza viene così caraterizzata per la sua autonomia ontologica, la quale
poi fonda a sua volta la sua funzione di sostegno degli accidenti:
Substantia vero quod est subiectum, duo habet propria: quorum
primum est quod non indiget extrinseco fundamento in quo sustentetur,
sed sustentatur in seipso; et ideo dicitur subsistere, quasi per se et non in
alio existens. Aliud vero est quod est fundamentum accidentibus
substentans ipsa; et pro tanto dicitur substare.48
L’assenza di fondamento estrinseco per il “sustentari” della sostanza
prima costituisce il punto preciso dell’analogia con la prima causa efficiente,
che per definizione non può essere “effettuata”: come la sostanza creata,
avendo l’essere in sé, non ha bisogno di altro per essere, così anche Dio
non ha alcuna causa del proprio essere. Questa somiglianza relativa non
toglie ovviamente la dissomiglianza infinita che separa l’Essere sussistente
dall’ente per partecipazione, il cui atto di essere è rivevuto da Dio e da lui
conservato. Si potrebbe dire che lo esse della creatura non ha alcun principio
attuante anteriore, sul livello della causalità predicamentale, ma dipende
radicalmente, sul livello della causalità trascendentale, dalla sua
causa efficiente divina, mentre lo Esse divino non ha affatto alcuna causa
trascendentale anteriore.
Ora l’atto di essere creato non potrebbe essere tale se non fosse limitato
da un’essenza che gli dà la sua specificazione49, indicando ciò che, per una
concreta sostanza prima, l’essere è, il suo quid est. Ben lungi dal fuggire alla
causalità divina, questa determinazione vi trova anzi il suo esemplare
increato, per cui la cosa è ciò che è in quanto si conforma al suo “modello”
divino. A questo punto, la metafisica tommasiana della creazione, centrata
______
47 Quaestiones de quolibet IX, q. 3, a. un., ad 2. Descrizione quasi identica in ST III, q. 77, a.
1, ad 2: “quidditati autem sive essentiae accidentis competit habere esse non in subiecto”.
48 QD De potentia, q. 9, a. 1 in c.
49 Cf. QD De ueritate, q. 29, a. 3 in c: “cuiuslibet creaturae esse est limitatum ad perfectionem
propriae speciei”.
28
Alain Contat
sul dono dello esse, incontra ed assume la speculazione agostiniana sulle
idee divine, nelle quali l’Aquinate vede la misura secondo cui l’essenza
creata imiterà l’essenza divina in maniera radicalmente imperfetta:
Res autem creatae non perfecte imitantur divinam essentiam, unde
essentia non accipitur absolute ab intellectu divino ut idea rerum sed cum
proportione creaturae fiendae ad ipsam divinam essentiam secundum quod
deficit ab ea vel imitatur ipsam; diversae autem res diversimode ipsam
imitantur et unaquaeque secundum proprium modum suum cum unicuique
sit esse distinctum ab altera. Et ideo ipsa divina essentia, cointellectis
diversis proportionibus rerum ad eam, est idea uniuscuiusque rei.50
L’idea divina viene dunque considerata come la “proporzione” (proportio
creaturae fiendae) secondo la quale l’ente creabile o creato assomiglia,
in modo maggiore o minore, all’essenza divina. Ma l’essenza, in Dio, è
assolutamente identica all’essere, anche se, dal punto di vista dell’intelletto
umano, essenza ed esse esprimono in questo unico caso aspetti per noi —e
solo per noi— concettualmente distinti dell’unico Esse subsistens, giacché
l’essenza significa immediatamente esse quid, e l’essere, esse in actu51. Proprio
perché Dio è atto puro, la sua quiddità coincide con la sua attualità di
essere. Nella creatura, invece, la quiddità restringe l’attualità di essere
entro un preciso grado, e siccome “nullus actus invenitur finiri nisi per potentiam,
quae est vis receptiva”52, l’essenza è allora realmente diversa dallo
esse ch’essa riceve e limita. In questa prospettiva, ci sembra pienamento
legittimo dire che l’essenza, nell’ente creato, corrisponde alla proporzione,
o misura, di perfezione ontologica predefinita, nell’intelletto divino,
dall’idea, che esprime sì un contenuto (quid), ma un contenuto che non
ha consistenza alcuna al di fuori del suo essere attuale (esse in actu), che sia
______
50 QD De ueritate, q. 3, a. 2 in c.
51 A questo riguardo, cf. CG IV, c. 11, n. 13: “quamvis haec in Deo unum sint verissime,
tamen in Deo est quicquid pertinet ad rationem vel subsistentis, vel essentiae, vel
ipsius esse: convenit enim ei non esse in aliquo, inquantum est subsistens; esse quid,
inquantum est essentia; et esse in actu, ratione ipsius esse”.
52 Compendium theologiae I, c. 18. Sulla pertinenza di questo principio rispetto alla
composizione reale di essere e di essenza, cf. J. F. WIPPEL, Metaphysical Themes in Thomas
Aquinas II, 123-151.
29
Esse, essentia, ordo
nell’identità dell’Essere divino, oppure nella composizione dell’ente
creato.
Creato poi conservato da Dio, il supposito sussiste quindi nel suo esse, ed
è specificato dalla sua essentia. Per san Tommaso, questo exitus implica
necessariamente un reditus, che si concretizza come “ordo effectus ad
aliquid alterum”, cioè come ordinazione al bene.53 Ora il bene perfetto di
una cosa si trova nel suo fine ultimo, il quale è raggiungibile tramite
l’operazione più alta di cui è capace questa cosa. In questo senso, l’Aquinate
enuncia talvolta sulla scia dello Stagirita che “omnis substantia est propter
suam operationem”54, dove il rapporto di finalità indicato dalla
preposizione propter costituisce l’appetito naturale della cosa. Uscita dal
creatore tramite il dono del proprio atto di essere misurato dalla sua essenza
correlativa, la sostanza creata è quindi ordinata ad una perfezione ulteriore,
che proverrà dall’operare. La radice metafisica di questa inclinazione si trova
nell’espansività dell’atto, che di per sé tende a comunicarsi:
natura cuiuslibet actus est, quod seipsum communicet quantum
possibile est. Unde unumquodque agens agit secundum quod in actu est.
Agere vero nihil aliud est quam communicare illud per quod agens est
actu, secundum quod est possibile.55
______
53 Cf. ST I, q. 45, a. 7, in c, nonché alcuni luoghi paralleli: ST I, q. 93, a. 6, in c: “ordo
vero demonstrat amorem producentis, quo effectus ordinatur ad bonum”; CG IV, c. 26,
n. 4: “Invenitur etiam in aliis rebus divinae Trinitatis similitudo: prout quaelibet res in
sua substantia una est: et specie quadam formatur; et ordinem aliquem habet. Sicut
autem ex dictis patet, conceptio intellectus in esse intelligibili est sicut informatio speciei
in esse naturali: amor autem est sicut inclinatio vel ordo in re naturali”.
54 CG I, c. 45, n. 6. L’assioma viene formulato da Aristotele, in un contesto astronomico,
nel De caelo II, c. 3, 286a, 8-9: “Ἕκαστόν ἐστιν, ὧν έστιν ἔργον, ἕνεκα τοῦ ἔργου”. San
Tommaso lo commenta così in Sententia super librum De caelo et mundo II, lc. 4, n. 5
(Marietti, n. 334): “unumquodque quod habet propriam operationem, est propter suam
operationem: quaelibet enim res appetit suam operationem sicut suum finem, operatio
autem est ultima rei perfectio (vel saltem ipsum operatum, in his in quibus est aliquod
opus praeter operationem, ut dicitur in I Ethic.”. Cf. pure Scriptum IV, d. 49, q. 1, a. 1,
qc. 2, in c; d. 50, q. 1, a. 1, sc.
55 QD De potentia, q. 2, a. 1, in c. Cf. Scriptum I, d. 4, q. 1, a. 1, in c: “communicatio
enim consequitur rationem actus”; CG II, c. 7, n. 3 (Marietti, n. 888): “potentia activa
sequitur ens in actu: unumquodque enim ex hoc agit quod est actu”; CG III, c. 69 n. 20
(Marietti, n. 2450): “agere sequitur ad esse in actu”.
30
Alain Contat
Dunque ogni ente è operativo proporzionalmente alla sua attualità. In
Dio, atto puro, l’intellezione e l’amore si identificano totalmente con
l’essere sussistente. Nella creatura, invece, l’atto di essere deve prima attuare
la potentia essendi definita dall’essenza56, e può quindi solo successivamente
—secondo una posteriorità logica ed ontologica, non necessariamente
cronologica— scaturire in energia operativa, giacché è allora lo ens,
e non lo stesso esse, che essendo in atto può anche agire. Ora questo operare
della sostanza creata, che sia transitivo o immanente, non soltanto procede
dall’attualità del supposito nella linea della causalità efficiente, ma è
sopratutto destinato a perfezionare quest’ultimo, per quanto sia possibile,
nella linea della causalità finale, facendolo passare dalla bontà secundum
quid dell’essenza sostanziale in atto, alla bontà simpliciter dell’operazione
accidentale perfettiva. Giungendo in questo modo al suo fine proprio, la
cosa raggiunge pure l’ultima partecipazione alla bontà divina di cui è capace.
57 Operare in vista del proprio fine, che è per ogni cosa il suo bene
ultimo immanente a sua volta partecipazione al bene divino trascendente:
sono queste le tappe del reditus attraverso le quali l’ente finito ritorna al
suo principio infinito, e con la cui analisi l’Aquinate comincia il terzo libro
del Contra Gentiles.58
Da tutto ciò, risulta che l’ordo, nella triade che investighiamo nel presente
studio, è certamente un ordo ad operationem, ma che lo è in un duplice
senso, che racchiude un paradosso. Da un lato, infatti, questo ordine
rivela la generosità dell’atto di essere che si espande, dopo l’essere sostanziale
e al di là di esso, negli accidenti propri e sopratutto nelle operazioni
della cosa; d’altro lato, però, lo stesso ordine manifesta l’indigenza
dell’essere in atto della sostanza, che richiede il proprio perfezionamento
operativo.59 Pare quindi che l’ordo consecutivo al plesso di esse e di essentia
______
56 Il sintagma potentia essendi riferito all’essenza viene adoperato una volta da san
Tommaso, in Sententia super Physicam VIII, lc. 21, n. 13. Benché esso sia quindi uno
ἃπαξ λεγόμενον, ci sembra esprimere molto bene il ruolo dell’essenza rispetto all’ente.
57 Cf. CG III, c. 19, n. 5 (Marietti, n. 2008): “Omnis res per suum motum vel actionem
tendit in aliquod bonum sicut in finem, ut supra ostensum est. In tantum autem aliquid de
bono participat, in quantum assimilatur primae bonitati, quae Deus est. Omnia igitur per
motus suos et actiones tendunt in divinam similitudinem sicut in finem ultimum”.
58 Cf. CG III, c. 1-3, e 16-24.
59 In termini un può descrittivi, questo paradosso dell’attività creata è stato visto bene
da W. NORRIS CLARKE, Person and Being, 10: “It follows that, for Aquinas, finite,
created being pours over naturally into action for two reasons: (1) because it is poor, i.e.,
31
Esse, essentia, ordo
(senza la quale non si dà lo esse) sia simultaneamente un potere attivo ed
una potenza passiva rispetto alla stessa operatività. Come risolvere questa
aporia, che è quella stessa dei due livelli di bontà nell’ente creato? La dottrina
fabriana dello esse intensivo e della partecipazione ci offrirà ora un
principio di soluzione assai fecondo.
II. L’emergenza dello esse nello exitus della creatura
“Omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi”60:
nel corso della sua carriera metafisica, il Fabro insisterà sempre di più su
ciò ch’egli chiama l’“emergenza” dello esse sopra tutte le perfezioni reali
dell’ente. Secondo il filosofo Stimmatino, infatti, l’essenza sostanziale in
atto, le forme accidentali, le operazioni, e la stessa esistenza della cosa, si
radicano tutte nell’unico atto di essere creato, e quindi misurato, come
abbiamo appunto evidenziato, dall’essenza vista come potenza di essere.
Questa concezione si presenta come la riscoperta del significato genuino
di quel “hoc quod dico esse”61 in cui si origina tutta la grandezza speculativa
dell’Aquinate. Per accedervi, occorre superare due interpretazioni di segno
opposto che offuscano la luce dello esse.
Il primo errore da evitare è quello di Avicenna, che legge la composizione
entitativa come sovrapposizione accidentale di una “esistenza stabilita”,
che sarebbe l’essere, ad una “esistenza propria”, quale sarebbe invece la
quiddità, il che equivale, da una parte, a dotare l’essenza di una consistenza
______
lacking the fullness of existence, and so strives to enrich itself as much as its nature allows
from the richness of those aroud it; but (2) even more profoundly because it is rich,
which it tends naturally to communicate and share with others”. In maniera più dettagliatta,
cf. lo studio molto suggestivo di ID., “Action as the Self-Revelation of Being: A
Central Theme in the Thought of St. Thomas”, 45-64.
60 ST I, q. 4, a. 2, in c.
61 La formula torna tre volte nel celebre brano delle QD De potentia, q. 7, a. 2, ad 9:
“hoc quod dico esse est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est
semper perfectior potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi
per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia
materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet
esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium
actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est,
quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans, sicut
actus potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui
additur determinandum” (corsivo nostro).
32
Alain Contat
ontologica del tutto autonoma, ed a ridurre l’atto di essere, d’altra parte, al
principio realizzante dell’essenza così intesa.62 Fabro vede in questa
posizione l’origine del binomio tardo-medioevale di esse existentiae e di esse
essentiae, nel quale il primato dello esse viene annegato nella dualità della
existentia e della essentia, e dove quindi l’essenza, proprio come nel Libro
della Guarigione, acquista un essere a sé stante, che può essere oggettivato
indipendentemente dall’atto di essere. Questo slittamento non solo
semantico, ma sopratutto dottrinale inaugura un processo di “oblio
dell’essere” in senno alla stessa scuola tomista domenicana, che arriva fino
alla sostituzione del plesso di esse-essentia con quello di existentia-essentia, in
particolare con Giovanni di San Tommaso, nonché, dopo di lui, in grande
parte del tomismo neoscolastico.63 Mentre l’Aquinate vede nell’atto di
essere la fonte di tutti i livelli di attualità del supposito, e nell’essenza la
determinazione potenziale che costituisce strutturalmente lo stesso esse
come lo esse di tale cosa64, il maestro lusitano capisce l’esistenza come l’atto
che pone la cosa fuori del nulla e delle sue cause, e l’essenza come un altro
atto che, sebbene non sia nulla senza l’esistenza, conferisce però alla cosa la
sua consistenza quidditativa. Sdoppiando in questo modo l’attualità
originaria dell’ente creato, si fa dello esse ridotto ad existentia un principio
assai esteriore a ciò che la cosa è in sé, di tal guisa che, volens nolens, il
baricentro dell’ontologia si sposta verso l’essenza, anche se si sostiene la
______
62 Su questo punto, cf. AVICENNA, Metafisica, Trat. I, sez. 5, [31], 73: “diciamo che
l’intenzione dell’esistenza e l’intenzione della cosa sono rappresentate entrambe nelle
anime, essendo due intenzioni: l’esistente, dunque, è ciò [la cui esistenza] è stabilita o ciò
che è dato sono sinonimi secondo uno stesso significato; e non dubitiamo che i significati
[di simili termini] siano già presenti a chi legge questo libro. Con “la cosa” e con quel
che sta al posto di essa, si può indicare, tuttavia, anche un’altra intenzione, in tutte le
lingue. Ogni cosa ha, infatti, una realtà in virtù della quale essa è quel che è: così, il triangolo
ha una realtà per cui è triangolo, il bianco ha una realtà per cui è bianco; e questa
è quanto potremmo chiamare “l’esistenza propria”, senza voler indicare con essa ciò che
significa l’esistenza stabilita [...]; anche con il termine “esistenza”, infatti, si indicano
molte intenzioni, e fra di esse vi è la “realtà secondo la quale è la cosa”, per cui è come se
“ciò secondo cui [la cosa] è” fosse l’esistenza propria della cosa”.
63 C. FABRO analizza questo processo nel suo studio “L’obscurcissement de l’“esse” dans
l’école thomiste”, 443-472, ripreso in Participation et causalité selon S. Thomas d’Aquin,
280-315 e tradotto in Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 601-628. Si
veda pure ID., “Il posto di Giovanni di S. Tommaso nella Scuola Tomistica”, 56-90.
64 Cf. Sententia super Metaphysicam, IV, lc. 2, n. 558: “Esse enim rei quamvis sit aliud
ab eius essentia, non tamen est intelligendum quod sit aliquod superadditum ad modum
accidentis, sed quasi constituitur per principia essentiae”.
33
Esse, essentia, ordo
distinzione reale contro la scuola scotista o quella suareziana. Perciò, si
arriva pure a postulare una certa attuazione dell’essenza nei confronti
dell’esistenza, rovesciando così, volens nolens, l’anteriorità assoluta dello
esse tommasiano sull’essenza.65 Per quanto rigarda lo specifico problema
del presente studio, due implicazioni di questa flessione formalista sono
particolarmente notevoli. In primo luogo, l’esse essendo soltanto la posizione
di una forma nell’esistenza, ci saranno nel supposito tanti atti di
essere quante forme, cosicché ogni accidente avrà il proprio esse.66 In
secondo luogo, l’appetito naturale della sostanza verso il proprio fine, cioè
il suo ordo ad operationem, verrà fondato unicamente sulla sua essenza,
all’esclusione esplicita dell’esistenza, giacché quest’ultima rimane del tutto
esterna alla costituzione specifica della cosa, e dunque alla finalità inserita
nella sua natura.67 Il reditus della creatura procede allora soltanto dalla sua
essenza, e non dal suo esse, che in questo tipo di ontologia formale ha
cessato di essere la fonte degli accidenti e delle operazioni del supposito.
______
65 La dualità irriducibile degli atti originari e la riduzione dello esse alla posizione di
esistenza appaiono chiaramente nel seguente brano di GIOVANNI DI SAN TOMMASO,
Cursus theologici, ed. di Solesmnes, t. I, In q. 3 primæ partis, disp. 4, a. 4, n. 18, 469a:
“aliter se habet actualitas formæ, et actualitas esse seu exsistentiæ; nam forma est actus
constituens aliquid in determinato genere et specie, et sic ex sua propria ratione habet
terminos suæ determinatæ perfectionis; at vero esse seu exsistentia, ex suo proprio et
formali conceptu, non est forma constituens in specie vel genere determinato, sed rem
constitutam extra causas ponens: quod quidem actualitas est, et consequenter perfectio;
sed quod sit tanta vel tanta perfectio, mensuranda est et desumenda ex ipsa natura et
essentia cui alligatur: v. g. exsistentia hominis est perfectior quam exsistentia lapidis,
perfectione et limitatione desumptâ ex natura cujus est exsistentia. De suo enim conceptu
exsistentia solum dicit actualitatem removentem potentialitatem qua aliquid est intra
causas: et sic ponit extra illas”. Per quanto riguarda l’analisi dell’ente finito secondo i
parametri del tomismo formalista, ci permettiamo di rimandare i lettori al nostro studio
A. CONTAT, “Le figure della differenza ontologica nel tomismo del Novecento”, 77-129
e 213-250, in particolare 99-105, riscontrabile anche in J. VILLAGRASA (ed.), Creazione
e actus essendi, 193-270 (in part. 212-217).
66 Cf. GIOVANNI DI SAN TOMMASO, Cursus theologici, t. I, In q. 3 primæ partis, disp.
4, a. 3, n. 38, 462a-b.
67 Cf. GIOVANNI DI SAN TOMMASO, Cursus theologici, t. III, In q. 19 primæ partis,
disp. 24, a. 1, n. 8bis, 63a: “quando S. Thomas dicit quod res naturalis habet esse per
formam, sufficit quod intelligatur de esse specifico seu constitutivo, non de esse exsistentiæ:
inclinationes enim rerum non sequuntur ad exsistentiam, ut exsistentia, sed ad
formam constituentem naturam: quia secundum diversas naturas diversificantur et
inclinationes ad diversos fines; super hoc autem esse specificum et essentiale, quod dat
forma, supervenit esse exsistentiæ, quo res non constituitur, sed deducitur extra causas”.
34
Alain Contat
All’opposto di un tale riduzionismo, il Fabro intende quindi stabilire
che lo esse tommasiano emerge al di sopra di tutti i momenti dell’ente concreto.
68 A questo scopo, egli si ispira, fra tanti altri luoghi, ad un brano del
Commento sul De divinis nominibus, che si scompone in due tappe (che
evidenziamo tipograficamente):
Quod autem per se esse sit primum et dignius quam per se vita et per
se sapientia, ostendit dupliciter:
primo quidem, per hoc quod quaecumque participant aliis participationibus,
primo participant ipso esse: prius enim intelligitur aliquod ens
quam unum, vivens, vel sapiens.
Secundo, quod ipsum esse comparatur ad vitam, et alia huiusmodi sicut
participatum ad participans: nam etiam ipsa vita est ens quoddam et
sic esse, prius et simplicius est quam vita et alia huiusmodi et comparatur
ad ea ut actus eorum.69
Ecco il commento fabriano:
[...] l’esse come tale esprime la perfezione assoluta e il plesso emergente di
tutte le perfezioni le quali così si rivelano le participazioni dell’esse stesso.
Questa nozione è il punto di arrivo e la conclusione di tutta la speculazione
tomistica la quale determina la “natura metafisica” (l’essenza!) di Dio come
esse puro (esse per essentiam, esse imparticipatum) e la creatura come ens
(esse per participationem). Il commento tomista a Dionigi c’indica due
momenti di questa esaltazione suprema dell’esse:
a) la “riduzione formale” mediante la nozione di partecipazione, di
tutte le perfezioni all’esse, in quanto son dette “partecipanti” alla
perfezione suprema ch’è l’esse [...];
______
68 Cf. Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 636: “San Tommaso, lui
soltanto, proclama l’emergenza assoluta dell’esse come atto di tutti gli atti e di tutte le
forme: forme ed atti i quali pertanto “cadono” nella condizione di potenza ovvero di
“capacità” recettiva dell’atto di essere. Come la forma precede la materia e la trascende
così l’esse ch’è atto e perfezione dell’essenza precede e trascende la forma e l’essenza di cui è
atto” (corsivo nostro).
69 De divinis nominibus, V, lc. 1, n. 635. All’inizio, il testo citato da Fabro porta senius
al posto di dignius.
35
Esse, essentia, ordo
b) la “riduzione reale”, mediante la coppia aristotelica di atto e potenza,
di tutte le perfezioni a “potenza” rispetto all’esse ch’è l’atto per eccellenza.
È all’interno di questa riduzione che si elabora la metafisica nella
sua caratteristica originaria e differenziale: essa infatti rappresenta il momento
della “mutua assimilazione” e penetrazione nel Tomismo del principio
platonico e di quello aristotelico.70
La “riduzione formale” significa che, nel supposito, tutti i contenuti ivi
realizzati sono anzitutto un “qualcosa che è”, cioè uno ens. L’essere-tale non
avrebbe alcun senso se non fosse fondamentalmente un tale-essere: in Socrate,
l’umanità, la bianchezza, la sapienza non sono altro che modi di essere.
Quindi già un’analisi sommaria della taleità o quiddità lascia trapelare il suo
radicamento nell’essere, inteso come perfezione originaria di cui le perfezioni
formali sono delle partecipazioni. Però, se rimanesse su questo piano,
la resolutio dell’ente potrebbe anche accontentarsi di una metafisica delle
essenze, mentre l’istanza decisiva è qui la seconda tappa, quella cioè della
“riduzione reale”, che coglie nello esse l’atto fondante, e nelle perfezioni stesse
di tale o tale ente concreto, delle forme o delle operazioni attuate.71 Una
formulazione particolarmente chiara dell’attualità che spetta allo esse si legge
nella Quæstio disputata De anima: “ipsum esse est actus ultimus qui participabilis
est omnibus; ipsum autem nichil participat”72. Quindi lo esse
emerge in seno all’ente ch’esso fonda precisamente in quanto è la fonte alla
quale tutti i livelli della realtà concreta attingono, e dalla quale essi ricevono
la loro attualità propria. In questa prospettiva, è impossibile ridurre l’atto di
essere a mera funzione realizzante di un’essenza sostanziale, che avrebbe da
______
70 C. FABRO, “La problematica dello “esse” tomistico”, 108-109. Sul tema
dell’emergenza dello esse, cf. anche ID., Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso
d’Aquino, 186-187; “L’emergenza dell’atto di essere in S. Tommaso e la rottura del formalismo
scolastico”, 35-54, in part. 50-51; “L’emergenza dello esse tomistico sull’atto aristotelico:
breve prologo”, 149-177, in part. 170-177.
71 Cf. C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso
d’Aquino, 197: “Il concetto di esse, come ho accennato di sopra, presenta una duplice
convergenza: una come pienezza assoluta di tutte le forme e perfezioni, come esse intensivo
formale (nozione a cui s’arresta la metafisica di tipo scotista o suareziano); un’altra
come atto originario, atto di ogni atto, ecc., e che non si trova sulla linea retta di una
mera potenziazione formale ma che esige il “passaggio ad altro”, all’ineffabile energia
primordiale che ci fa emergere sul nulla [...]”.
72 QD De anima, q. 6, ad 2.
36
Alain Contat
canto suo una sua consistenza in sé e per sé, sia perché l’attualità formale
dell’essenza procede dall’attualità fondante dello esse, sia anche perché esso,
coerentemente con la tesi appena formulata, attua successivamente,
attraverso la sostanza, le forme accidentali e le attività dell’intero supposito.
Questo dinamismo dello esse, mediato dall’essenza sostanziale, non è
soltanto un fatto, che l’esperienza viene infatti verificare, ma esprime
un’esigenza intrinseca allo stesso atto di essere: l’ente attuato dallo esse è
operante perché implica un ordo ad operationem. I passaggi teoretici che
giustificano questa necessità sono i seguenti:
1. La resolutio dell’ente creato sbocca sulla coppia di essenza e di
esse, dove quella è originariamente potenza di essere, e questo, atto
emergente di essere.
2. Attuata dallo esse, l’essenza acquista un’attualità formale che si
può anche descrivere come il contenuto primario dell’ente.
3. Ma l’atto emergente di essere trascende, per natura sua, il
proprio contenuto primario.
4. Di conseguenza, l’atto di essere tende a diffondersi nell’ente
oltre l’essenza in atto, nella misura consentita da quest’ultima.
In questo modo, il Fabro riconduce al suo fondamento trascendentale
il principio secondo cui “quamlibet formam sequitur aliqua inclinatio”73,
che rimarrebbe inintelligibile se lo esse esaurisse la sua attualità nel fare
essere l’essenza, e che diventa invece luminoso quando la forma o essenza
sostanziale viene fondata su un atto che la supera.74
Giunti a questo punto, siamo esposti al rischio di un fraintendimento
che sarebbe assai pericoloso per la corretta interpretazione dello esse
______
73 ST I, q. 80, a. 1, in c.
74 La differenza fra la concezione riduttiva dell’atto di essere e quella emergente è stata
espressa in maniera anch’essa molto chiara, da J. DE FINANCE, Être et agir dans la philosophie
de saint Thomas, 160: “Le principe de la limitation de l’acte, dont la “distinction
réelle” est la plus fameuse application, se peut comprendre de deux façons. Concevons
un acte tellement adéquat à la puissance qui le reçoit qu’il en sature toutes les possibilités:
la composition d’acte et de puissance rendra raison des caractères statiques du
composé; elle n’en expliquera point le dynamisme; les deux composants resteront absorbés
tout entiers par leur fonction réciproque. Mais l’on peut aussi concevoir que
l’acte, tout en satisfaisant la puissance sous un certain rapport, n’en épuise pas absolument
toutes les aptitudes, permette, provoque même un enrichissement ultérieur”.
37
Esse, essentia, ordo
emergente. In effetti, se confrontiamo il primato dell’atto di essere con la
mutabilità accidentale dell’ente finito, in particolare quello corporeo
vivente che vediamo assoggettato alla varietà degli scambi biologici o
psichici, possiamo essere tentati di capire lo esse come il principio radicale
di essere la cui intensità varia a seconda della storia percorsa dal supposito
ch’esso attua. Ora, in un congresso di filosofia nel quale intervenne il P.
Fabro, un partecipante dichiarò effettivamente:
[...] andrebbe tenuto conto che anche lo stesso atto di essere, in quanto
proprio dei singoli enti, è l’atto di un essere successivo, storico. Negli
uomini poi è l’atto di un essere, l’uomo, che è ente storico in senso forte,
in cui cioè la successività (la storicità) è anche consapevole e libera.75
Nonostante lo stile orale, la replica del filosofo stimmatino espone un
punto chiave della sua dottrina:
Una Sua espressione mi ha tutto traumatizzato dentro, secondo cui
l’atto di essere viene concepito come continuamente variabile. Io qui resto
anceps, fortemente anceps. Se questo atto di essere è l’atto dell’ente, l’atto
della sostanza, è atto sostanziale, è atto costitutivo. In me, nella posizione
di ente, costituisce più l’atto di essere che non l’umanità, perché la stessa
umanità è tenuta in essere dall’atto di essere. Allora questo atto profondo
intimo non varia; variano le attività esistenziali, varia il mio essere nel
mondo, non il mio essere nell’essere.76
Nel “parmenidismo” metafisico che Fabro riconosce in san Tommaso,
l’unico atto di essere partecipato che istituisce l’ente sussistente creato è sì
intensivo, ma è pure immutabile, finché dura la sostanza alla quale esso
conferisce l’essere. “Esse est aliquid fixum et quietum in ente”77: “dopo”
—sit venia verbi— che la sua intensità sia stata delimitata dall’essenza sostanziale,
l’atto di essere rimane per questo determinato ente il principio
fontale di attualità che non può variare, anche se le sue successive espansioni
accidentali od operative possono cambiare. La ragione di questa
______
75 A. DI GIOVANNI, “Dibattito congressuale”, 398.
76 C. FABRO, “Dibattito congressuale”, 398.
77 CG I, c. 20, n. 27 (Marietti, n. 179).
38
Alain Contat
immutabilità sta nel legame strutturale che unisce l’actus essendi alla
potentia essendi che lo misura e lo costituisce.78 Malgrado la qualifica di
existential thomism che si dà talvolta all’opera di Fabro, con intenti diversi,
nel mondo anglosassone, la sua posizione metafisica di fondo non ha
nulla di esistenzialista.
Lo esse tommasiano è dunque emergente, ma fisso. Quale è il suo
preciso rapporto a tutto ciò di cui esso è l’attualità originaria? La risposta
dipende dalla soluzione di un’aporia che si presenta anche come la
difficoltà centrale della filosofia dell’essere. Da un lato, infatti, diciamo
con san Tommaso che tutte le perfezioni di un ente derivano dallo esse:
alla luce di questo principio, l’essere dell’operazione, e la bontà che ne
risulta, procede dall’atto fondante di essere.79. Però, d’altro lato, l’Aquinate
afferma pure che l’essere dell’operazione viene aggiunto (superadditum) a
quello costitutivo dell’essenza sostanziale.80 Quindi sembra che l’attualità
ontologica dell’operare sia simultaneamente sotto e sopra quella dell’essere
sostanziale, partecipante da esso, e ad esso aggiunta. A Fabro va riconosciuto
il grande merito di aver tematizzato e, pensiamo, risolto almeno
in nuce questo problema, prima con il concetto di “diremtion”, poi con la
distinzione fra lo esse ut actus e lo esse in actu. Vediamo.
______
78 Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità, 390: “Tutt’altra invece è la situazione rispetto
all’esse, il quale essendo proporzionato all’essenza, non può trascendere il grado formale
dell’essenza stessa: “Esse autem est aliquid fixum et quietum in ente [...]””. Ci sembra interessante
rilevare che, su questo problema come su molti altri, É. GILSON sostiene la stessa
posizione, ad esempio in “Virtus Essendi”, 1-11, in particolare 9: “L’étant (ens) peut se
mesurer; il est plus ou moins selon les degrés de perfection de son essence, mais l’être (esse)
en vertu duquel il est un étant, est ou n’est pas, sans degrés possibles. Pris en soi, comme
acte formel de l’essence mais hors de l’essence, l’esse est étranger à la quantité, au plus et au
moins, au mouvement et au temps, à plus forte raison au devenir ”.
79 Cf. ad es. C. FABRO, “L’esse tomistico e la ripresa della metafisica”, 403: “Per S.
Tommaso, l’esse nel suo significato metafisico (come actus entis, actus essendi...) è l’atto
primo e non un astratto o un predicato (!): l’esse è il principio-fondamento (Grund, nel
senso ontologico-metafisico) di ogni forma, essenza, perfezione, realtà... concreta in
atto. L’esse è l’atto partecipato da ogni realtà in atto, è la partecipazione trascendentale
per eccellenza”.
80 Cf. Expositio libri Boetii De ebdomadibus, lc. 4: “alia uero bonitas consideratur in eis
absolute, prout scilicet unumquodque dicitur bonum in quantum est perfectum in esse et
in operari, et hec quidem perfectio non competit bonis creatis secundum ipsum esse essenciale
eorum, set secundum aliquid superadditum quod dicitur uirtus eorum ut supra dictum
est”; De divinis nominibus IV, lc. 1, n. 269: “res aliae, etsi inquantum sunt, bonae sint,
tamen perfectam bonitatem consequuntur per aliquod superadditum supra eorum esse”.
39
Esse, essentia, ordo
Mentre Dio è la sua essenza e il suo essere, l’atto creatore istituisce una
scissione fra ciò che ha l’essere e l’essere ch’esso ha, fra lo ens ed il suo esse,
cosicché l’ente è per il suo essere, ma non è questo essere, mentre l’essere fa
essere l’ente, ma in sé solo non è. La differenza onto-teologica provoca
dunque una diremtion81 o “spartizione” del supposito, per cui l’ente e l’atto
di essere differiscono l’uno dall’altro, pur richiamandosi l’uno l’altro. Ne
risulta un dislivello di attualità interno all’ente creato:
E l’esse, quando è puro e “separato”, cioè l’esse subsistens, è certamente
atto in se stesso e per se stesso e non ha bisogno di altro, è l’unico principio
ch’è sufficiente in se stesso. Ma l’esse partecipato è “caduto” nella Diremtion
della differenza ontologica e quindi non è più sufficiente in se
stesso: se la forma delle cose materiali abbisogna della materia come soggetto,
altrettanto —anzi di più— l’esse ha bisogno della forma ovvero dell’atto
formale come sua potenza. Infatti con la Diremtion che fa cadere
l’esse dalla sua semplice identità nella differenza ontologica, con l’intervallo
del nulla (creazione), l’esse diventa partecipato e quindi commensurato
e attribuito a “qualcosa”..., come “atto” della sostanza, spirito o
corpo che sia: questo qualcosa, ch’è soggetto dell’esse, non è quindi la potenza
pura della materia di Aristotele, ma un principio determinativo dell’esse
senza il quale l’esse partecipato non potrebbe essere tale atto, partecipato
per l’appunto.82
La diremtion mette in risalto, nella fondazione ontologica del reale,
un momento cruciale poco esplorato dai tomisti prima di Fabro.
Quando consideriamo lo esse e l’essenza come principi di questo ente, ma
“prima” dell’ente stesso, loro si corrispondono come atto e potenza in
senso stretto, di tal guisa che l’essenza, pur essendo una tale quiddità e
non un’altra, non ha alcuna attualità da sola: a questo punto, si sta al
termine della resolutio metafisica e, simmetricamente, all’inizio della
compositio trascendentale che Dio, Esse subsistens, effettua quando crea
un ente finito.83 Ma se invece consideriamo questi principi “dopo” e
______
81 Alle volte diremptio, comunque dal verbo latino dirimere.
82 C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 350.
83 Cf. C. Fabro, Dall’essere all’esistente, 41: “Per S. Tommaso (a differenza di tutta la
tradizione patristica e scolastica, prima e dopo di lui) l’essenza va detta potenza e in
potenza rispetto all’esse partecipatum ch’è l’atto primo metafisico, derivato da Dio, ch’è
40
Alain Contat
“dentro” lo stesso ente reale, è chiaro che l’essenza è ormai un’essenza in
atto, nel duplice senso ch’essa è realmente e che ciò che in questo modo
è, è secondo tale quiddità sostanziale (e individuale negli enti corporei).
Tale essenza in atto è quindi in atto per l’atto di essere, ma il suo essere in
atto non coincide con il suo atto di essere. Perciò, la diremtio dell’ente
creato differenzia, in esso, l’atto di essere della sostanza, da un lato,
dall’essere in atto della stessa sostanza, d’altro lato. Lo esse ut actus —o
atto di essere— è ciò per cui la sostanza è, e ch’essa ha in sé (e non in
altro); lo esse in actu —o fatto di essere— è ciò che la sostanza è attualmente,
e che funge da soggetto dello esse ut actus. Quindi l’essere come
atto è il principio attuante dell’ente, ed appartiene all’ordine trascendentale
anteriore alla mediazione della forma, mentre l’essere in atto è il risultato
della composizione entitativa, e sta nell’ordine predicamentale
posteriore, per definizione, alla mediazione della forma. Per questa ragione,
l’essere sostanziale può essere inteso in due sensi: o nella dimensione
dell’atto intensivo e costitutivo di essere, oppure in quella dell’essere
in atto dell’essenza. Nel primo significato, lo esse (ut actus) è
unico in quanto esse, e va riferito espressamente alla sostanza prima o
supposito84; nel secondo significato, lo esse (in actu) è unico soltanto in
quanto sostanziale-essenziale, ma non inquanto esse, perché esso viene
allora messo a confronto con l’esse accidentale.85 Dunque c’è un solo esse
ut actus nel supposito creato, mentre ci sono diversi esse in actu, quello
sostanziale, quelli delle forme accidentali, e quelli delle operazioni.86
______
l’esse per essentiam. Così la creatura, ovvero il finito, perché fondata sull’essenza che di
per sé è non-ens rispetto all’esse, ha in sé il nihil, è fondata sul nihil e di per sé tende al
nihil: ma non è un nihil”.
84 Cf. ad es. ST I, q. 45, a. 4, in c: “Illi enim proprie convenit esse, quod habet esse; et
hoc est subsistens in suo esse. Formae autem et accidentia, et alia huiusmodi, non dicuntur
entia quasi ipsa sint, sed quia eis aliquid est”.
85 Cf. ad es. QD De unione uerbi incarnati, a. 3, in c: “Quia vero unum convertitur
cum ente, sicut est esse accidentale et esse substantiale, ita dicitur aliquid esse unum vel
multa vel secundum formam accidentalem, vel secundum substantialem”.
86 Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 199: “Una
conferma ed un’applicazione dell’esse essentiae (l’essenza metafisica), è la divisione
dell’esse in esse substantiale ed esse accidentale che non può riguardare direttamente l’esse
come actus essendi, il quale è l’atto proprio della sostanza completa (substantia prima)”. Il
tema della distinzione fra esse ut actus ed esse in actu viene sviluppato anche in ID., “La
problematica dello “esse” tomistico”, 117-125.
41
Esse, essentia, ordo
Siamo ora in grado di scogliere l’aporia dello esse superadditum, che si
tratti di una forma accidentale o di un’operazione. Rispetto all’atto di essere,
contrariamente a quanto voleva il tomismo formalista, l’essere dell’accidente
o dell’operazione non aggiunge alcun nuovo esse ut actus, ma un’espansione
ulteriore di quest’ultimo attraverso la sostanza, quindi un nuovo esse in actu,
cosicché la perfezione aggiunta riguarda ciò a cui si aggiunge come il partecipante
al partecipato: qui vale in tutto il suo rigore teoretico il principio
secondo cui non c’è nulla di più formale dello esse in senso intensivo.87 Per
contro, la forma accidentale poi l’attività transitiva o immanente si riferiscono
allo esse in actu dell’essenza o forma sostanziale come un supplemento
di perfezione ontologica, di modo che l’accidente e l’operazione incrementano
l’attualità della sostanza: qua la sostanza nuda sta a tutto ciò di cui essa
è il soggetto come la potenza all’atto88. All’interno del quadro speculativo
aperto dalla diremtion, e solo in esso, si conciliano le due valenze delle forme
accidentali che, da una parte, promanano dalla sostanza, mentre, d’altra
parte, ineriscono in essa:
actualitas per prius invenitur in subiecto formae accidentalis, quam in
forma accidentali: unde actualitas formae accidentalis causatur ab actualitate
subiecti. Ita quod subiectum, inquantum est in potentia, est susceptivum
formae accidentalis: inquantum autem est in actu, est eius productivum.
[…] iam dictum est quod accidens causatur a subiecto secundum
quod est actu, et recipitur in eo inquantum est in potentia.89
Perché il soggetto degli accidenti propri sia simultaneamente in atto e
in potenza nei loro confronti, deve esserlo sotto aspetti realmente diversi,
altrimenti si infrangerebbe il principio di non-contraddizione. Ma grazie
alla distinzione messa in risalto dal Fabro, si capisce che la sostanza, o più
______
87 Cf. QD De anima, q. 1, ad 17m, che al primato dello esse associa la sua comunicabilità:
“licet esse sit formalissimum inter omnia, tamen est maxime communicabile”.
88 Cf. l’opuscolo giovanile De principiis naturae, c. 1: “Sicut autem omne quod est in
potentia potest dici materia, ita omne a quo aliquid habet esse, quodcumque esse sit sive
substantiale, sive accidentale, potest dici forma; sicut homo cum sit potentia albus, fit
actu albus per albedinem, et sperma, cum sit potentia homo, fit actu homo per animam.
Et quia forma facit esse in actu, ideo forma dicitur esse actus. Quod autem facit actu esse
substantiale, est forma substantialis, et quod facit actu esse accidentale, dicitur forma
accidentalis”. In questa spiegazione elementare, l’Aquinate si tiene al piano aristotelico
degli atti formali.
89 ST I, q. 77, a. 6, in c.
42
Alain Contat
precisamente la forma sostanziale, dispone con il suo esse ut actus originario
di un potenziale di attualità che le consente di produrre i suoi accidenti,
mentre la stessa sostanza, se considerata secondo la realtà che spetta al
suo stretto esse in actu, si trova in potenza ricettiva rispetto agli stessi accidenti.
90
Se l’operazione ha in comune con gli altri accidenti la caratteristica di
aggiungere un’ens secundum quid all’ens simpliciter della sostanza in atto,
essa tuttavia ha in proprio la necessità di procedere dalla propria potenza
operativa, a causa della dovuta proporzione fra l’atto operativo ed il principio
da cui immediatamente scaturisce: omne agens agit sibi simile. Perciò
l’agire della sostanza creata viene sempre mediato da una potenza attiva
proporzionata.91 La posizione del supposito creato instaura così al suo interno
una successione di rapporti di potenza ad atto: la sostanza, in atto per
quanto riguarda la sua essenza, è in potenza alle sue potenze operative, le
quali poi, una volta attuate come forme accidentali, sono in potenza alle
loro operazioni. Nell’aristotelismo storico che si coglie negli scritti dello
Stagirita, l’οὐσία è prima nell’ordine della causalità formale, cosicché tutti gli
altri significati dello ὄν si dicono in riferimento noetico ed ontologico ad
essa, mentre l’ἐνέργεια, nel senso di operazione perfetta, è prima nell’ordine
della causalità finale, cosicché tutte le altre coppie di potenza ed atto sono
finalizzate a questo atto ultimo, specialmente nell’ente vivente. Finché lo
εἶναι dello ὄν rimaneva inesplorato in sé stesso, l’investigazione metafisica
sboccava, per quanto riguarda l’ente finito, su questa resolutio duale, dove la
______
90 Sul problema dell’emanazione degli accidenti propri, cf. lo studio ottimamente documentato
di J. F. WIPPEL, The Metaphysical Thought of Thomas Aquinas, From Finite
Being to Uncreated Being, 266-275. L’A. nota a p. 275: “One might wish that Thomas
had spelled more fully what it means for the soul or for a substantial subject to serve “in
a certain way” as an active or productive or efficient cause of its proper accidents”. Pensiamo
che la dottrina fabriana che abbiamo brevemente riassunta offre, con la soluzione
del quesito, la sua completa fondazione teoretica.
91 Cf. QD De anima, q. 12, in c: “unumquodque aigt secundum quod actu est illud
scilicet quod agit. Ignis enim calefacit non in quantum est actu lucidum, set in quantum
est actu calidum. Et exinde est quod omne agens agit sibi simile. Vnde oportet quod ex
eo quod agitur consideretur principium quo agitur: oportet enim utrumque esse conforme.
Vnde et in II Physicorum dicitur quod forma et generans sunt idem specie.
Quando igitur id quod agitur non pertinet ad esse substantiale rei, impossibile est quod
principium quo agitur sit aliquid de essentia rei”.
43
Esse, essentia, ordo
ricerca del “cos’è l’ente” e quella del “perché è l’ente” evidenziano principi
che si implicano a vicenda in maniera irriducibile92: la sostanza è per
l’operazione, ma l’operazione è un’affezione della sostanza (πάθη οὐσίας93).
In Dio solo, sostanza ed atto coincidono totalmente, perché egli è atto
puro di pensare sé stesso. Nell’aristotelismo speculativo di san Tommaso,
invece, la coppia lineare di οὐσία —specificata dal τὸ τί ἦν εἶναι— e di
ἐνέργεια —finalizzata dall’ἐντελέχεια seconda94— viene assunta nel
dinamismo che procede dallo esse ut actus originario e quiescens ai diversi
momenti integrativi dello esse in actu protesi verso il conseguimento del fine
ultimo di cui è capace questo determinato ente. Non solo, quindi, la sostanza
in atto primo è ordinata alla sua operazione perfettiva in atto secondo,
secondo un rapporto di potenza ad atto, ma —e sopratutto— l’atto di essere
intensivo creato da Dio insieme alla sua misura ch’è l’essenza sostanziale,
attua successivamente la stessa essenza, poi, mediante quest’ultima, le forme
accidentali, nonché, mediante questa volta le potenze operative, le operazioni,
di tal guisa ch’esso viene partecipato dall’ente attraverso queste mediazioni
in modi formalmente differenziati, ma teleologicamente indirizzati
all’ultima perfezione in atto.
Si delinea allora nell’ente creato un circolo, o se si preferisce un’altra immagine
geometrica, una parabola metafisica. Iniziando dallo esse ut actus
delimitato dall’essenza correlativa, si scende lungo la catena delle partecipazioni
successive, in tal modo che ogni partecipante viene poi partecipato
dal momento ontologico seguente, il che manifesta l’emergenza dello esse
sui diversi livelli di ente ch’esso fonda.95 Contemporaneamente però —e
______
92 Cf. A. DE MURALT in ARISTOTE, Les Métaphysiques, Traduction analytique des livres
Γ, Ζ, Θ, Ι, et Λ, 244: “Il apparaît ainsi que substance et acte sont des principes principiellement
divers (primo diversa) de ce qui est en tant qu’il est, uns selon l’unité de ce
qui est dit selon la proportion et selon l’unité de ce qui est dit par rapport à un premier,
l’acte étant en l’occurrence le principe premier et final auquel est ordonnée la substance
elle-même, comme à sa perfection d’être (entelecheia), de même que la substance est le
principe formel premier auquel est ordonnée la matière”.
93 ARISTOTELE, Metaphysica Γ, 2, 1003b,7.
94 Cf. ARISTOTELE, De anima Β, 412a, 22-23.
95 Cf. C. FABRO, Introduzione a san Tommaso, La metafisica tomista & il pensiero
moderno, 159: “IV. L’esse, cioè l’actus essendi partecipato che costituisce con l’essenza
l’ente in atto come sinolo trascendentale, è pertanto l’atto primo sia del sinolo predicamentale
di materia e forma nei corpi, sia del sinolo operativo di sostanza e accidenti
negli enti finiti e del sinolo trascendentale di essenza e di esse (actus essendi)”; “ VI.
“Ente” è quindi il “semantema primario” sia nell’ordine statico (che implica la composi44
Alain Contat
questo mostra poi l’inadeguatezza della metafora— la discesa diventa, a
partire dallo esse in actu dell’essenza sostanziale, un’ascesa verso il compimento
qualitativo ed operativo dell’intero supposito:
Ed ecco il circolo o piuttosto la spirale ascendente dell’essere: le
potenze operative (forme accidentali) che derivano ovvero escono dalla
forma sostanziale, fanno ritorno alla medesima o piuttosto al composto
con i propri atti e abiti che sono le sue perfezioni. I protagonisti di questo
dramma metafisico, che apparve al suo tempo come una rivoluzione ed
oggi più che mai si presenta nella propria originalità speculativa, sono i tre
atti: l’esse, la forma sostanziale e la forma accidentale. Ciascuno è fondato
da l’altro e ciascuno è per l’altro, proprio perchè l’uno non può essere
l’altro ma lo precede e lo fonda in un rapporto fondamentale.96
L’ente creato è dunque come destinato ad adempire le virtualità del
proprio esse ut actus, attraverso l’integrale del suo esse in actu, da quello
sostanziale a quello operativo, sedimentato, nel caso dell’uomo che è il più
perfetto degli enti visibili, nel complesso delle sue virtù. All’interno della
diremtion, la definizione dello habitus come “modus et determinatio subiecti
in ordine ad naturam rei”97 trova la sua ultima giustificazione teoretica:
tramite i suoi abiti buoni, il soggetto umano arricchische sé stesso,
attuando le capacità radicate, in ultima analisi, nello esse specificato dalla
sua natura. Analogicamente, questo circolo si ritrova in tutte le sostanze
finite. In questa prospettiva, possiamo quindi porre che la legge dell’ente
creato ossia il suo compito dinamico consiste nel convertire il proprio esse
ut actus nel massimo livello raggiungibile di esse in actu. Sulla scia di
un’analogia usata qualche volta da san Tommaso, si può capire l’actus essendi
come una quantitas virtualis di essere che, rimanendo sempre la stessa,
dispiega tuttavia la sua energia nello sviluppo o nella storia dell’ente di
cui è l’atto originario, fondandone ciò che sarebbe allora la sua “quantitas
actualis”98. In questo processo, l’essere dell’ente fa ritorno su di sé, e lo stesso
______
zione dell’essenza reale con l’actus essendi), sia nell’ordine dinamico come primo fondamento
della sostanza nell’operare, così che l’atto dell’operare è per partecipazione
dell’atto di esse, quale atto primo della sostanza”.
96 C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 375.
97 ST I-II, q. 49, a. 2, in c.
98 Cf. ad es. QD De ueritate, q. 29, a. 3, in c: “Est autem duplex quantitas, scilicet di45
Esse, essentia, ordo
exitus dà avvio al reditus.99 Tentiamo ora di capire meglio questo passaggio
in direzione del quale ci ha indirizzati la speculazione fabriana.
III. La mediazione dello esse nel reditus della creatura
“Ipsum enim esse nondum est” aveva detto Boezio; e Tommaso aveva
chiarito che, nelle creature, ciò che è è il soggetto dell’essere, e non l’essere
stesso.100 Le nostre investigazioni hanno messo in evidenza sia questo paradosso
dello esse creato, che fa essere ma non è, sia pure quello dell’essenza,
che indica ciò che l’ente è ma da sola non è. Non si dirà mai abbastanza
che essere ed essenza sono i principi dell’ente, ma non sono enti,
se non appunto per riferimento analogico all’ente che ambedue concorrono
a fondare. Per questa ragione, il mistero dello esse creato, che non possiamo
concettualizzare direttamente, andrebbe favorevolmente avvicinato
con la nozione di virtus essendi, come lo suggerisce Fran O’Rourke.101
Questo sintagma consente di chiarire la differenza teologica fra lo esse che
Dio è e quello che la creatura ha sotto un punto di vista assai originale:
Igitur si aliquid est cui competit tota virtus essendi, ei nulla
nobilitatum deesse potest quae alicui rei conveniat. Sed rei quae est suum
esse, competit esse secundum totam essendi potestatem: sicut, si esset aliqua
albedo separata, nihil ei de virtute albedinis deesse posset; nam alicui
albo aliquid de virtute albedinis deest ex defectu recipientis albedinem,
______
mensiva, quae secundum extensionem consideratur, et virtualis, quae attenditur secundum
intensionem; virtus enim rei est eius perfectio secundum illud Philosophi in VII
Physicorum “Unumquoque perfectum est quando attingit propriae virtuti”; et sic quantitas
virtualis uniuscuiusque formae attenditur secundum modum suae perfectionis. […]
ex hoc quod dicitur ens, consideratur in eo quantitas virtualis quantum ad perfectionem
essendi”. La quantità virtuale dell’ente proviene dalla sua forma in atto, e quindi dallo
esse, al quale essa deve la propria attualità.
99 Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 228: “Si potrebbe
quasi dire, con terminologia hegeliana, che mentre la quantitas extensiva si manifesta
come “rapporto ad altro”, la quantitas virtualis ed intensiva si attua come “rapporto
a se stesso” nel ritorno completo su di sè, come il nuovo infinito positivo”.
100 Cf. Expositio libri Boetii De ebdomadibus, l in c. 2: “Vnde sicut non possumus dicere
quod ipsum currere currat, ita non possumus dicere quod ipsum esse sit; set id quod
est significatur sicut subiectum essendi”.
101 Cf. F. O’ROURKE, “Virtus Essendi: Intensive Being in Pseudo-Dionysius and Aquinas”,
31-80; e più ampiamente ID., Pseudo-Dionysius and the Metaphysics of Aquinas.
46
Alain Contat
quae eam secundum modum suum recipit, et fortasse non secundum totum
posse albedinis. Deus igitur, qui est suum esse, ut supra probatum est,
habet esse secundum totam virtutem ipsius esse.102
La virtus essendi significa, in questo brano, la capacità attuante racchiusa
nell’essere stesso, equivalentemente espressa con la formula potestas essendi,
che può dunque fare essere tutto ciò che, a qualunque titolo, è una delle
perfezioni di essere. Forse ci si chiederà se il discorso metafisico, giunto a
questo punto, diventa tautologico, e non può che tornare a Parmenide: ἐστι
γὰρ εἶναι103, dando magari al verbo coniugato |è| un significato quasi attivo?
In realtà, il problema va collocato nell’ambito della diremtion: o la virtus
essendi dello esse si dispiega interamente, e ciò che allora sussiste è l’essere in
tutta la sua pienezza, senza alcun limite, quindi Dio stesso, la cui identità
non è allora attuante, ma è atto puro; oppure la virtus essendi dello esse viene
ristretta entro i confini di una determinata capacità ricettiva, vale a dire tale
o tale essenza, e allora ciò che sussiste non è identico al suo essere, ma viene
da esso attuato. In quest’ultimo caso, la virtus essendi è quindi correlativa ad
una potentia essendi, cioè alla capacità di essere costitutiva dell’essenza e
delimitata dalla forma:
quantum unicuique inest de forma, tantum inest ei de virtute essendi.104
Interpretata alla luce di tutto quanto abbiamo già esplorato, questa
proporzione ci consente di delineare una genesi trascendentale dell’ente
finito lemma che ovviamente usiamo nel suo senso classico e non
moderno. Proviamo ad elencarne i momenti costitutivi:
1. Originariamente, lo esse che non è Dio, ma è creato da Dio, lo
è come virtus o potestas, e va quindi caratterizzato in primo luogo
come potere attivo di far essere. È proprio questo il guadagno speculativo
offerto dalla nozione di virtus essendi: l’essere della creatura
non è primariamente quello di un contenuto quidditativo, e quindi
non si dà subito come essere-in-atto di tale o tale ente specificato;
______
102 CG I, c. 28, n. 2.
103 Diels-Kranz, 28 B, 6, 1.
104 QD De potentia, q. 5, a. 4, ad 1.
47
Esse, essentia, ordo
primariamente, l’essere creato è potere di essere, fonte di energia
ontologica disponibile.
2. Ma questa attualità radicale viene, esternamente ad essa,
delimitata dall’essenza senza la quale non potrebbe essere creata;
perciò lo esse si caratterizza, in secondo luogo, per la sua “finizione”
necessariamente consecutiva alla sua ricezione in una essenza: la
virtus essendi della creatura ha sempre una intensità finita, più o
meno ampia a seconda della potentia essendi circoscritta nelle note
definitorie della quiddità.105
3. L’ente che nasce dall’attuazione dell’essenza ad opera dello esse
va quindi considerato fondamentalmente, in terzo luogo, come
qualcosa che ha una virtus essendi partecipata secondo l’apertura della
sua forma. Ora, dai due primi momenti, risulta che la virtù di essere
precede, nella costituzione stessa di questo ente, la misura di
essere. In altri termini, l’atto di essere precede la sua determinazione,
cosicché l’ente è ente in prima linea perché esso ha l’essere, e non
perché è di tale o tale quiddità: “nomen autem entis ab actu essendi
sumitur, non autem ab eo cui convenit actus essendi”106. Ma se
l’essere è originariamente, nella cosa, una virtus essendi, questo
significa che l’ente è non meno originariamente destinato ad
esercitare il suo “poter essere” fino alle sue ultime possibilità. Proprio
per questo, se il supposito finito è un “alcunché di determinato” (hoc
aliquid, cioè τόδε τι), esso lo è come una determinata fonte di
attualità, e non come l’effettuazione di un contenuto chiuso in sé:
essere uomo equivale ad avere la natura umana, e quindi a poter
espandere la propria virtus essendi in tutte le forme accidentali ed in
tutte le operazioni di cui tale natura è allora il principio radicale.
Così si profila, nello stesso exitus dell’ente finito, lo stimolo verso il
proprio reditus operativo.
______
105 Cf. De divinis nominibus, V, lc. 1, n. 629: “Omnia autem alia, sicut superius dictum
est, habent esse receptum et participatum et ideo non habent esse secundum totam
virtutem essendi, sed solus Deus, qui est ipsum esse subsistens, secundum totam virtutem
essendi, esse habet”; ST I, q. 5, a. 4, ad 4: “Esse autem participatum finitur ad capacitatem
participantis”.
106 QD De ueritate, q. 1, a. 1, ad 3 in cont. È ancora più suggestiva la formulazione giovanile
dello Scriptum I, d. 8, q. 4, a. 2, ad 2: “Ens autem non dicit quidditatem, sed
solum actum essendi, cum sit principium ipsum” (corsivo nostro).
48
Alain Contat
In maniera più sintetica, occorre sottolineare che “risolvere” lo ens
nell’atto intensivo di essere, nella linea di Cornelio Fabro, conduce necessariamente
a pensare lo stesso ens come virtualmente attivo, ovviamente nella
misura consentita dalla sua essenza, perché l’atto mira per natura sua a
diffondersi, come l’abbiamo già rilevato.107 Nell’Essere sussistente per
essenza, in quanto accessibile al filosofo, questa diffusione coincide con
l’Atto puro di intelligere e di amare sé stesso, di modo ch’essa non implica
alcuna potenzialità, né di conseguenza alcuna alterità. Nell’ente per partecipazione,
invece, la diffusione dell’atto originario di essere viene per così
dire “filtrata” dalla forma sostanziale, di tal guisa ch’esso fonda due piani di
essere in atto, quello della stessa forma o essenza, con gli accidenti propri
che ne scaturiscono, poi quello dell’operare, grazie al quale l’ente finito
giunge alla sua ultima perfezione. Però, la radice di attualità di questi due
livelli di atto deve essere la stessa, secondo la logica profonda di un brano
della Ia pars poco citato in questo contesto:
Secundum enim quod participatur aliquid, secundum hoc est necessarium
quod participetur id quod est proprium ei: sicut quantum
participatur de lumine, tantum participatur de ratione visibilis. Agere
autem, quod nihil est aliud quam facere aliquid actu, est per se proprium
actus.108
L’“applicazione”, o piuttosto la riduzione di questo argomento al suo
fondamento è immediata. Infatti, se l’agire è il “proprio per sé” dell’atto,
questo sarà vero a fortiori dell’atto per antonomasia che è l’atto di essere;
perciò, l’ente che viene costituito dalla sua partecipazione allo esse non
potrà non partecipare successivamente alla sua proprietà, cioè all’agire, inteso
come potere originario di operare. Perciò, la virtus essendi si convertirà
successivamente, nella sostanza finita, in virtus operandi, proporzionata
alla densità ontologica dell’essenza, e destinata condurrla al suo fine ultimo.
Ma tutta la reductio ad esse, che abbiamo condotta finora, sembra urtare
contro un principio chiave della metafisica tommasiana, quello della stretta
______
107 Cf. i testi citati supra nella nota 55.
108 ST I, q. 115, a. 1, in c. Nello stesso senso, cf. anche ST III, q. 8, a. 5, in c: “unumquodque
agit inquantum est ens actu. Oportet autem quod sit idem actu quo aliquid est
actu, et quo agit: et sic idem est calor quo ignis est calidus, et quo calefacit”.
49
Esse, essentia, ordo
proporzione fra l’atto e la potenza che gli corrisponde109, per cui l’atto di
essere attua soltanto la sostanza, mentre l’atto di operare appartiene ad un
altro registro, quello dell’accidente. Questa irriducibilità, nell’ente creato,
fra l’atto operativo e l’atto sostanziale viene sempre invocata dall’Aquinate
per giustificare, di fronte alla scuola francescana, la necessità di porre delle
potenze operative fra l’anima (o la sostanza vivente) e le sue operazioni:
l’ente animato non è immediatamente operativo perché la potenza di essere
non è la potenza di operare.110 Riconducendo l’agire dell’ente creato al suo
atto di essere, non rischiamo di compromettere questa tesi storicamente e
speculativamente centrale per l’intera ontologia tommasiana del creato? Più
di un tomista ci avrebbe mosso questa seria obiezione, come il P. Henri-
Rousseau, autore di un importante studio che, trattando una tematica assai
vicina alla nostra, intende confutare ciò ch’egli presenta come estensione
indebita dello esse all’operari. Ecco la sua presentazione del primato che
assegniamo all’atto di essere:
L’existence est l’acte ultime, absolument parlant. L’être créé ne peut y participer
suffisamment par son essence limitée. L’infini de l’exister suscite donc
en lui un dynamisme infini, par quoi il tend à participer pleinement à l’acte.
Viene poi subito la critica:
Le fond de cette conception dynamique et ouverte serait donc le refus
de la distinction existentielle entre l’être et l’agir. Ce refus ne nous paraît
pas sauvegarder une thèse fondamentale du thomisme, celle de la
proportion rigoureuse entre la puissance et l’acte. Non, l’existence créée
n’a pas la transcendance qu’on lui prête, car elle est inséparable de l’être et
______
109 Cf. ad es. QD De anima, q. 12, in c: “Potentia enim ad actum dicitur. Unde secundum
diuersitatem actuum oportet esse diuersitatem potentiarum”.
110 Cf. ad es. QD De spiritualibus creaturis, a. 11, in c: “hec positio est omnino impossibilis:
primo quidem quia impossibile est quod alicuius substantie create sua essentia sit
sua potentia operatiua. Manifestum est enim quod diuersi actus diuersorum sunt; semper
uero actus proportionatur ei cuius est actus. Sicut autem ipsum esse est actualitas
quedam essentie, ita operari est actualitas operatiue potentie seu uirtutis: secundum
enim hoc utrumque eorum est in actu, essentia quidem secundum esse, potentia uero
secundum operari. Unde cum in nulla creatura suum operari sit suum esse, set hoc sit
proprium solius Dei, sequitur quod nullius creature operatiua potentia sit eius essentia;
set solius Dei proprium est ut sua essentia sit sua potentia”.
50
Alain Contat
de son essence, comme l’acte de sa propre puissance; elle ne déborde pas
les capacités de son essence, ni l’essence sa propre actualité.111
Essenza ed atto di essere —existence per il tomismo francese di quel tempo—
sono quindi talmente correlativi che ogni “emergenza” dello esse, in
seno all’ente, va esclusa per principio. Nella logica di questa posizione,
l’inclinazione della sostanza finita verso la propria operazione rimane di
tipo meramente attitudinale, e non comporta alcuna comunicazione di
attualità, di tal guisa che l’essere in atto dell’operare costituisce una nuova
partecipazione all’Atto puro di essere, che non procede dallo esse creato.112
Ci ritroviamo con ciò che Fabro chiamava la “flessione formalista” del tomismo,
in virtù della quale il ruolo dello esse si riduce, rispetto all’operare,
ad esserne una condizione sine qua non, che lo rende possibile, ma non influisce
positivamente sulla sua attualità. Per agire, bisogna sì esistere; però
l’agire non riceve il suo essere dall’essere sostanziale. Simmetricamente,
l’essenza sostanziale implica sì una inclinazione a tale o tale azione connaturale;
ma la stessa essenza, in atto nella sostanza reale, non media questa
azione. Questa concezione conduce quindi a porre nel supposito finito tre
tipi di esse, correlativi a tre tipi di potenze con le quali essi compogono tre
coppie di atto e di potenza concatenate l’una nell’altra, ma irriducibili l’una
all’altra: lo esse che attua la forma sostanziale, quello che attua ciascuna
forma accidentale, e quello che si identifica con l’operare, atto delle potenze
operative. Ne risulta che l’atto di essere, già nella sfera del creato, non può
______
111 J.-M. HENRI-ROUSSEAU, “L’être et l’agir”, 286. Il saggio completo, di grande spessore
teoretico, fu pubblicato in tre puntate della Revue thomiste: 53 (1953), 488-531; 54 (1954),
267-297; 55 (1955), 85-118. Il lettore si ricordi che la lingua francese non usava, in quei
tempi, il vocabolo “étant”, e ne esprimeva il significato con l’infinito sostantivato “être”, mentre
soleva tradurre lo esse tomistico con “existence”. In senso chiaramente contraddittorio, cf.
W. N. CLARKE, “Action ad the Self-Revelation of Being: A Central Theme in the Thought
of St. Thomas”, 46: “The act of existence of any being (its “to be” or esse) is its “first act”, its
abiding inner act, which tends naturally, by the very innate dynamism of the act of existence
itself, to overflow into a “second act”, which is called action or activity”.
112 Cf. la presa di posizione molto chiara, al riguardo, di J.-H. NICOLAS, “Chronique de
philosophie spéculative”, 550: “Agere sequitur esse, non pas en ce sens que l’acte d’être serait
ordonné à l’acte d’agir, mais en ce sens que, pour être ordonné à l’acte d’agir et à tel acte
d’agir, il faut d’abord être constitué dans l’être, c’est-à-dire actué par un acte déterminé (et
sans que soit sacrifiée non plus l’universalité de l’esse, car cet acte d’agir est encore de l’être,
mais c’est une participation originale, irréductible à celle de l’acte d’être, à l’ipsum esse subsistens,
en lequel viennent confluer à leur sommet l’ordre de l’agir et l’ordre de l’esse)”.
51
Esse, essentia, ordo
venire pensato al di fuori dell’analogia di proporzionalità per cui la forma
sostanziale sta allo esse sostanziale come la forma accidentale allo esse
accidentale, giacché non si dà alcun punto di convergenza di questi diversi
esse che consentirebbe di inserirli in un’analogia di rapporto ad un primo.
La lettura della metafisica tomista che si ricollega al Gaetano lascia trapelare
qui la sua coerenza interna, che unisce l’irriducibilità dei diversi esse e
l’insuperabilità della proporzionalità. Se questa contestazione dello esse
emergente fosse valida, l’impresa del P. Fabro risulterebbe vana, come anche
questo nostro modesto studio.
La nostra risposta deve iniziare riconoscendo senza indugi che ci sono
diversi piani di attualità nel supposito creato. Proprio rispetto alle facoltà
operative del vivente, l’Aquinate dimostra infatti la loro reale distinzione
dall’anima con il principio secondo cui l’atto e la potenza dividono le singole
categorie dell’ente, cosicché una cosa è l’attualità della sostanza, ed
un’altra cosa quella dell’operazione vitale.113 Tutta la difficoltà sta dunque
nell’alternativa fra l’impossibilità o la necessità di radicare questi livelli successivi
di attualità in un atto originario fondante. Se confrontiamo
questo problema con i luoghi tommasiani più pertinenti, accertiamo nuovamente
due proposizioni che sono state già toccate nel presente studio,
ma che conviene visualizzare insieme:
a. Lo esse è anzitutto l’attualità di tutti gli atti, e per questo
motivo la perfezione di tutte le perfezioni, come proclama ciò che
forse sarà il locus princeps dell’Angelico su questa tematica.114
b. Lo esse designa anche l’attualità della sostanza, mentre la actio
è l’attualità di una facoltà operativa: loro si oppongono come atto
primo ed atto secondo, questo essendo il fine di quello.115
______
113 Cf. ST I, q. 77, a. 1, in c: “cum potentia et actus dividant ens et quodlibet genus entis,
oportet quod ad idem genus referatur potentia et actus. Et ideo, si actus non est in genere
substantiae, potentia quae dicitur ad illum actum, non potest esse in genere substantiae.
Operatio autem animae non est in genere substantiae; sed in solo Deo, cuius operatio est
eius substantia. Unde Dei potentia, quae est operationis principium, est ipsa Dei essentia.
Quod non potest esse verum neque in anima, neque in aliqua creatura”.
114 Cf. QD De potentia, q. 7, a. 2, ad 9, citato supra nota 61.
115 Cf. ST I, q. 54, a. 1, in c: “Actio enim est proprie actualitas virtutis; sicut esse est
actualitas substantiae vel essentiae”; q. 105, a. 5, in c: “forma, quae est actus primus, est
propter suam operationem, quae est actus secundus”.
52
Alain Contat
Comme accade non di rado per le grandi tesi metafisiche o dogmatiche
di san Tommaso, una ermeneutica fedele alla totalità del corpus
thomisticum deve conciliare, in chiave teoretica, due asserti fra i quali la
tradizione esegetica tende facilmente a privilegiare l’uno a dispetto dell’altro.
Lo esse è quindi, in un senso, l’attualità di tutti gli atti, compresa allora
quella dell’operazione [a]; in un altro senso, però, esso è l’attualità della
sostanza, e non quella dell’operazione [b]: come accordare queste due tesi,
entrambe autenticamente tommasiane? L’aporia sembra, di primo acchito,
insuperabile. Infatti, o l’atto di essere dà l’essere a tutto ciò che si dà
nell’ente, ed allora non è soltanto l’attualità della sostanza; oppure, all’opposto,
lo esse deve intendersi solo come l’essere della sostanza, ad
esclusione degli altri momenti riscontrabili nel supposito.
Per togliere l’apparente contraddizione, dobbiamo districare i rapporti
di attualità e di potenzialità in seno al supposito creato. Conviene
appoggiarsi, al riguardo, sulla finizione dello esse creato:
Omne igitur quod est post primum ens, cum non sit suum esse, habet esse
in aliquo receptum, per quod ipsum esse contrahitur: et sic in quolibet creato
aliud est natura que participat esse et aliud ipsum esse participatum.116
Quindi lo esse della sostanza creata ha due caratteristiche: esso è, in primo
luogo, atto, ed essendo l’atto di essere, è il suo atto fondante; ma, in
secondo luogo, questo atto è “contratto”, ossia ristretto entro i limiti della
forma che lo riceve, ch’essa sia sussistente oppure che medi ulteriormente
l’essere alla materia. Istituendo un ente finito, la “diremtion” della virtus
essendi ad opera della potentia essendi contrappone, all’interno di esso, un
atto di essere estrinsecamente finito dall’essenza, a questa essenza ormai in
atto per questo atto di essere. Per la tradizione formalista, nella quale si
iscrivono Giovanni di San Tommaso e Jean-Marie Henri-Rousseau, questi
due poli dell’ente finito si ricoprono perfettamente, di modo che l’atto di
essere non attua nientr’altro che l’essenza, e che l’essenza non ha alcuna
attualità che non sia strettamente sua. Ma se una simile interpretazione
rende materialmente conto della seconda delle tesi tommasiane in merito
[b], essa nega la prima di loro [a], poiché l’atto di essere cesserebbe allora di
______
116 QD De spiritualibus creaturis, a. 1, in c. Cf. anche, ad es., ST I, q. 75, a. 5, ad 4:
“Esse autem participatum finitur ad capacitatem participantis”.
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Esse, essentia, ordo
essere l’atto di tutti gli atti e di tutte le perfezioni dell’ente. Inoltre, il misconoscimento
dello esse non sarebbe soltanto esegetico, ma sopratutto
teoretico, perché i coprincipi dell’ente creato verrebbero ridotti a due
funzioni polari, come se fossero perfettamente correlativi. Qui, occorre capire
bene ciò che implica la nozione di essere come atto o attualità. Premettendo
che lo esse della creatura è sempre finito, si deve discernere in esso
due valenze: l’atto finito di essere come atto, da una parte, e l’atto finito di
essere come atto dell’essenza ch’esso fa essere e dalla quale riceve la sua
specificazione, d’altra parte. Non si tratta esattamente dello stesso esse,
giacché il primo non include l’essenza, pur essendone misurato, mentre il
secondo comprende la stessa essenza ch’esso attua. Nel primo caso, l’atto di
essere, senza lasciare di essere “contratto”, viene considerato precisamente in
quanto atto, ossia in quanto virtus essendi alla cui natura spetta di essere una
fonte di energia ontologica protesa verso la propria espansione. Questa è la
natura essendi dello esse, reduplicazione che esprime con altri termini ciò
che Fabro intendeva con il sintagma “atto intensivo di essere” oppure esse ut
actus117, cioè il primo principio attuante di tutto l’ente, che non è ancora un
contenuto, ma attua immediatamente o mediatamente tutto ciò ch’esso
contiene. Nel secondo caso, invece, l’atto di essere viene colto come l’atto
della sostanza e nella sostanza, vale a dire come ciò che tale essenza sostanziale
o forma sussistente è attualmente, ma anche determinatamente, e
quindi limitatemente ad essa. Si tratta allora dell’attualità dello esse in
quanto posseduta dall’essenza, e pertanto dell’“essere in atto” o esse in actu
della sostanza, diverso da quello supe-radditum dell’accidente e dell’operare.
118 Insomma, l’atto di essere è la virtus essendi dell’intero supposito,
______
117 Cf. ad es. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 68:
“L’esse è l’atto, senz’aggiunta; nelle cose finite, nella natura e nell’anima, l’esse è l’atto
attuante e quindi il sempre presente e presentificante”; 234: “l’esse è l’atto κατ' ἐξοχήν,
atto di ogni atto, e non un contenuto”. Per la formula “natura essendi”, cf. Quaestiones de
quolibet III, q. 1, a. 1, in c.
118 Cf. Su questa diremtion dello esse, cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo
S. Tommaso d’Aquino, 201-202: “Possiamo quindi concludere che l’esse in actu corrisponde
all’esse essentiae: come all’essenza sostanziale corrisponde un esse sostanziale, così
all’essenza accidentale (la quantità, la qualità, la relazione...) corrisponde l’esse accidentale.
Ma l’esse ut actus essendi è il principium subsistendi della sostanza, grazie al quale
tanto l’essenza della sostanza come anche quella degli accidenti sono in atto e operano
nella realtà: l’esse degli accidenti è l’esse in actu nel tutto ch’è la sostanza prima, è quindi
un’esistenza secondaria derivata dalla sostanza reale come un tutto in atto”; 203-204: “se
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Alain Contat
che emerge in un certo senso al di sopra del proprio limite essenziale, perché
l’atto trascende il contenuto, mentre l’essere sostanziale è l’atto della sola
essenza sostanziale, che coincide con l’essenza sostanziale in atto.119
La distinzione fra essere come atto ed essere in atto si ripercuote nella
distinzione che san Tommaso introduce, nelle sostanze separate, fra soggetto
e forma:
ratio forme opponitur rationi subiecti: nam omnis forma in quantum
huiusmodi est actus, omne autem subiectum comparatur ad id cuius est
subiectum ut potentia ad actum. Si qua ergo forma est que sit actus tantum,
ut diuina essentia, illa nullo modo potest esse subiectum [...]; si autem
aliqua forma sit, que secundum aliquid sit in actu et secundum aliquid in
potentia, secundum hoc tantum erit subiectum, secundum quod est in
potentia. Substantie autem spirituales, licet sint forme subsistentes, sunt
tamen in potentia in quantum habent esse finitum et limitatum.120
Considerando la sfera più elevata della creazione, vale a dire quella
delle sostanze separate, ed alzandoci così al livello propriamente metafisico,
discerniamo nella forma sussistente due caratteristiche ontologiche
contrapposte, che saranno poi comuni a tutti gli enti creati. In quanto la
forma sussistente è precisamente una forma, essa è un atto: e questo non è
altro che il suo esse substantiale o essere in atto. Al contempo, però, questo
essere in atto è limitato, e lo è da un principio potenziale diverso dall’atto
stesso, in virtù del principio secondo cui l’atto non è mai limitato da sé
stesso, cosicché la forma sussistente, anche se scevra di ogni materia, racchiude
come sappiamo una composizione reale fra il suo atto di essere e
______
esse si può dire tanto dell’essenza come formalità caratteristica nella costituzione delle
sostanze, quanto dell’ens ch’è la realtà completa in atto, esse in senso proprio è soltanto
l’actus essendi; nella sfera dell’esse essentiae si distinguono l’ens (esse) substantiale e l’ens
(accidentale) nel senso che si è detto: ma l’esse attualizzante ch’è l’actus essendi non divisibile,
è perché indica la qualità di atto assoluta che fa la prima discriminazione del reale
e il primo fondamento della verità, perché è inscindibile e semplicissima affermazione
del suo atto ed ha per contrario semplicemente il non-essere. L’essenza invece è scissa già
in sostanza e accidenti [...]”.
119 Cf. C. FABRO, “Il nuovo problema dell’essere e la fondazione della metafisica”, 506:
“l’essenza è il principio come contenuto intrinseco realizzato e l’actus essendi è il principio
come atto realizzante intrinseco”. Ovviamente, l’essenza realizzata è l’essenza in atto.
120 QD De spiritualibus creaturis, a. 1, ad 1.
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Esse, essentia, ordo
l’essenza semplice che lo riceve. Sotto questo aspetto, la forma sussistente è
in potenza, e si trova nella condizione di soggetto rispetto a ciò che la attua.
Mutatis mutandis, questo vale pure dell’essenza composta, che da un lato è
un certo essere in atto (mediato dalla sua forma), e d’altro lato ha ragione di
soggetto a causa della potenzialità originaria della sua intera essenza (compresa
la forma). Questa dimensione di soggetto ordinato ad una perfezione
attuante si dispiega in due ordini concentrici. Nell’ordine trascendentale,
costitutivo dell’ente per partecipazione, l’attualità è quindi lo esse intensivo,
che attua ma non è in atto, mentre il soggetto di tale atto è l’essenza sostanziale
composta, oppure la forma semplice, che è potenza determinata di
essere, ma la cui determinazione non può essere colta al di fuori dell’essere
ch’essa riceve. Ne risulta che il soggetto dell’atto di essere è sempre, nella
realtà, in atto, perché è un partecipante che non ha consistenza al di qua del
suo rapporto a ciò ch’esso partecipa. Perciò, l’ente una volta istituito si
inserisce necessariamente in un secondo ordine, quello predicamentale,
consecutivo dunque all’ente per partecipazione, nel quale il soggetto è la
sostanza in atto primo, mentre l’attualità è quella, successiva, delle forme
accidentali e delle operazioni, grazie alle quali la sostanza giunge al suo atto
secondo perfettivo. All’incrocio fra i due ordini, c’è dunque la sostanza
creata in atto finito: essa è, da una parte, in potenza al proprio perfezionamento
a causa della limitazione che proviene dalla sua essenza; ma la
stessa sostanza dispone con il suo atto di essere, d’altra parte, di una fonte di
attualità proporzionata alle sue capacità. In questo modo la differenza dello
esse, cioè la sua “caduta” ontologica nell’essenza porta l’ente creato a “riscattare”
la sua finitudine nell’operatività.121
Siamo ora in grado di scogliere l’aporia che opponeva l’unicità dello
esse, atto di tutti gli atti, alla dualità fra lo esse della sostanza e la actio della
potenza attiva.
______
121 Cf. ad es. C. FABRO, La nozione metafisica de partecipazione secondo san Tommaso
d’Aquino, 25: “occorre ben distinguere anche fra ordine trascendentale e predicamentale:
nel primo, l’esse ha certamente il carattere di atto (per tutte le formalità) nel senso indicato,
nel secondo è invece alla natura, come primo principio immanente dell’agire
(Physic., B, 1, 192b, 20) che compete il carattere di nucleo dinamico e specificativo a
un tempo dell’agire”; ID., Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 207:
“‘Partecipare’ non è più semplice sinonimo di ‘suscipere’, ma comporta una ‘discesa’ della
formalità verso una “caduta” della perfezione partecipata nel partecipante e quindi una
‘differenza ontologica’ ed una dipendenza reale del partecipante dal partecipato nella
propria sfera secondo il modo della partecipazione stessa”.
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Alain Contat
a. La costituzione trascendentale dell’ente pone nella realtà un
ente creato, che viene composto da un atto di essere e di una potenza
di essere correlativa. Quello è la fonte originaria —virtus essendi— di
tutta l’attualità del supposito, questa ne misura l’intensità massimale.
Ci troviamo nell’ordine supremo dei principi dell’ente, che precede i
suoi contenuti, e supera perciò la sfera dell’esperienza.122
b. “Dopo” che abbia attuato la forma semplice, oppure l’essenza
composta attraverso la forma, l’atto di essere viene da essa mediato in
due grandi tappe successive: una prima volta, la forma sostanziale dà
alla sostanza il suo essere in atto; poi, tramite quest’ultimo, la forma
causa l’essere in atto degli accidenti, dal quale scaturisce finalmente
l’operare. In breve, la forma trasmette alla cosa prima l’essere, poi
l’operazione.123
La chiave del rapporto fra [a] e [b] si trova nella differenza che la
contrazione dello esse ad opera dell’essenza istituisce fra l’atto di essere da
un parte, e l’essere in atto dell’ente d’altra parte. Lo ens, infatti, partecipando
all’atto di essere che lo fa essere, è in atto, ma non è il suo atto.
Ne risulta una serie di binomi soggetto / atto, che si incastonano l’uno
nell’altro. Il primo binomio è interno all’essenza sostanziale, che è in
qualche modo soggetto in quanto è potenza di essere, ed è atto in quanto,
partecipando all’atto di essere, è costituita nella sua attualità formale. La
sostanza, a sua volta, viene attuata dalle forme accidentali, ed in particolare,
______
122 Cf. C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, 233: “Se
l’analisi o riduzione fenomenologica dell’esperienza ci porta quindi a distinguiere
l’essenza (contenuto) e l’esistenza (fatto), la realtà e la sua realizzazione: la riflessione o
riduzione metafisica scopre la distinzione o ‘Diremtion’ fra l’essenza e l’esse, come potenza
ed atto. Questa à la distinzione (e composizione) suprema per la fondazione del reale
nella sua determinazione di ‘ente per partecipazione’; questa determinazione certamente
non pretende di avere un riferimento immediato alla esperienza come quella di sostanza
e accidenti, di essenza e di esistenza”.
123 Cf. lo scorcio di ST I, q. 42, a 1, ad 1, che si ricollega significativamente alla quantitas
virtualis: “Secundo autem attenditur quantitas virtualis in effectibus formae. Primus autem
effectus formae est esse: nam omnis res habet esse secundum suam formam. Secundus
autem effectus est operatio: nam omne agens agit per suam formam. Attenditur igitur
quantitas virtualis et secundum esse et secundum operationem: secundum esse quidem,
inquantum ea quae sunt perfectioris naturae, sunt maioris durationis; secundum operationem
vero, inquantum ea quae sunt magis potentia ad agendum”. Quindi la forma media
l’essere alla sostanza, poi all’operazione, in modo proporzionato alla propria apertura.
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Esse, essentia, ordo
nel caso degli enti viventi, dalle sue potenze operative, di tal modo che si dà
nel supposito reale un secondo binomio, il cui soggetto è l’essenza sostanziale
in quanto il suo essere è finito, e il cui atto è lo esse superadditum
dell’accidente che completa tale essere finito. Finalmente, la potenza attiva,
che è una qualità di seconda specie, causa la propria operazione, producendo
il terzo binomio, il cui atto è l’operare ossia l’atto secondo, e il cui
soggetto in senso stretto è la sostanza già ordinata all’agire dalla sua potenza
sovraggiunta, quest’ultima essendo il principio quo del proprio atto operativo.
124 Così si vede che l’atto intensivo di essere è certamente la actualitas
omnium actuum [a], ma lo è attraverso una scala di mediazioni, di tal guisa
ch’esso non si identifica pienamente con nessuno degli atti successivi [b],
proprio a causa della sua “caduta” iniziale nell’essenza che lo riceve. Simmetricamente,
quest’ultima va considerata sotto due aspetti: dal punto di
vista trascendentale [a], l’essenza restringe lo esse ad una determinata
intensità di essere, che il supposito non potrà superare, mentre, dal punto di
vista predicamentale [b], essa specifica la sostanza, e si contradistingue dagli
accidenti che vi ineriscono. La dinamica di partecipazione che cerchiamo di
analizzare può allora essere considerata partendo da entrambi i principi costitutivi
dell’ente. Nella linea “discendente”, rispetto allo stesso esse fondante,
i partecipati successivi sono quindi l’essere in atto della sostanza, l’essere in
atto delle forme accidentali, e l’operare in atto delle facoltà operative; nella
linea “ascendente”, i partecipanti sono invece in ordine inverso l’essenza
della sostanza come potenza di essere, l’essenza della sostanza come essere
in atto limitato, ed il supposito costituito in atto primo per l’essere in atto
dell’essenza e quello sovraggiunto delle forme accidentali. Si deve sottolineare,
davanti a queste mediazioni successive della virtus essendi, che i
livelli intermedi di attualità dipendono dallo actus essendi emergente, come
i livelli intermedi di potenzialità rimandano alla potentia essendi originaria,
coerentemente con il valore architettonico dei co-principi costitutivi
dell’ente finito.125 A questo punto, ci sembra che un prospetto sinottico aiu-
______
124 Cf. QD De anima, q. 12, in c: “sciendum est quod potentia nichil aliud est
quam principium operationis alicuius, siue sit actio siue passio; non quidem principium
quod est subiectum agens aut patiens, set id quo agens agit aut patiens patitur”.
125 Perciò l’Aquinate poteva notare nello Scriptum I, d. 3 q. 4, a. 3, ad 2: “accidens ex
seipso non habet virtutem producendi aliud accidens; sed a substantia potest unum
accidens procedere mediante alio, secundum quod illud praesupponitur in subjecto; et
58
Alain Contat
terà il lettore a visualizzare questa dinamica poco studiata dell’ente per
partecipazione:
I
Principi trascendentali costituenti dell’ente per partecipazione
Potentia essendi: essentia Actus essendi: esse ut actus
II
Piani successivamente costituiti di partecipazione allo esse
Livello
soggetti partecipanti esse in actu partecipato
Sostanziale
essenza sostanziale
in quanto potenza
specificante
esse substantiale
in quanto essere-in-atto della
sostanza
Accidentale
essenza sostanziale in quanto
ente-in-atto
formale limitato
esse accidentale
in quanto essere-in-atto degli
accidenti
Operativo
supposito in atto primo per
l’essere-in-atto della sostanza e
degli accidenti
Operari in quanto essere-inatto-
secondodell’intero
supposito
Dal punto di vista logico-critico, conviene rilevare che questa espansione
dell’essere nell’ente fa apparire tutte e due le forme dell’analogia, e non una
sola. In primo luogo, constatiamo infatti che i rapporti di potenza ad atto
che abbiamo identificati all’interno del supposito sono proporzionali l’uno
all’altro: l’essenza sostanziale sta al suo essere in atto (esse substantiale) come
la forma accidentale al suo essere accidentale (esse accidentale), e come la
potenza operativa al suo operare (operari).126 In questa dimensione, che è
______
ita etiam accidens non potest esse per se subjectum accidentis, sed subjectum mediante
uno accidente subjicitur alteri”.
126 Per questa proporzionalità nello esse, cf. Scriptum III, d. 1, q. 1, a. 1, in c: “[...] unum
analogia seu proportione, sicut substantia et qualitas in ente: quia sicut se habet
59
Esse, essentia, ordo
quella dello esse in actu, l’unità dell’ente viene colta attraverso l’analogia di
proporzionalità. Se ci si fermasse a questa figura dell’analogia, i diversi
modi di attualità riscontrabili nell’ente finito non avrebbero in esso una
fonte comune, cosicché la sua unità sarebbe soltanto proporzionale. Ma la
resolutio progressiva dei diversi livelli di esse in actu avendo fondato
l’operare dell’ente nel suo essere sostanziale, e quest’ultimo nell’atto di
essere, la riflessione è in grado di gerarchizzare i diversi significati dell’ente
secundum prius et posterius, in un rapporto di convergenza verticale che li
riferisce tutti, in una prima fase ancora categoriale, alla sostanza in atto,
poi in una seconda fase propriamente trascendentale, all’atto di essere.127
Perciò, l’unità relativa dei diversi momenti ontologici dell’ente ordinati
allo esse ut actus va letta secondo l’analogia di rapporto, detta anche di
attribuzione.128 In sintesi, l’analogia di proporzionalità implica, in ultima
istanza, l’analogia di rapporto, perché la somiglianza fra le coppie di soggetto
e di atto si risolve nell’identità dell’atto di essere partecipato, e da
esso procede mediante l’essenza nei tre gradi differenziati che abbiamo
evidenziati.
L’integrazione delle due analogie nell’analisi integrale dell’ente in atto
secondo ne mostra il dinamismo in spirale. In effetti, se l’atto di essere viene
originariamente “contratto” dall’essenza, esso viene poi “dilatato” nei cerchi
ascendenti successivi che procedono dal soggetto (sostanza / accidenti;
potenze / operazioni). Questo processo segue quindi una dialettica di
pienezza e di indigenza, i cui momenti sono: prima l’atto di essere, ricco di
attualità, ma non in atto da solo; poi l’essenza, originariamente carente du
attualità, e successivamente (sotto lo esse) in atto limitato, quindi sempre
______
substantia ad esse sibi debitum, ita et qualitas ad esse sui generis conveniens”; ST I, q. 79
a. 1c: “sicut enim potentia se habet ad operationem ut ad suum actum, ita se habet essentia
ad esse”.
127 Cf. CG I, c. 34, n. 1 (Marietti, n. 297): “ens de substantia et accidente dicitur secundum
quod accidens ad substantiam respectum habet”; QD De unione uerbi incarnati, a. 4,
in c: “Esse enim proprie et vere dicitur de supposito subsistente. Accidentia enim et formae
non subsistentes dicuntur esse, in quantum eis aliquid subsistit”.
128 Non possiamo entrare, in questa sede, nelle controversie relative alla terminologia
da usare per designare i diversi tipi di analogia. “Proporzionalità” ci sembra molto chiaro,
e “rapporto” presenta il vantaggio rispetto ad “attribuzione” di essere sullo stesso
registro lessicale, di origine matematica e di significato onto-logico, e non meramente
logico. La nostra scelta ci avvicina parzialmente, poi, a quella (“proportion” e “rapport”)
di B. MONTAGNES, La doctrine de l’analogie de l’être d’après saint Thomas d’Aquin.
60
Alain Contat
attuanda, costitutivamente o consecutivamente; e finalmente l’operazione,
atto ed in atto, ma non da sé.129 Così l’ente, sopratutto ma non esclusivamente
quello vivente, si sviluppa secondo una progressiva Erfüllung,
ovviamente ontologica e non fenomenologica, secondo la quale la virtus
essendi dell’ente lo riempie con gli strati di attualità ch’essa racchiude
virtualmente, nella misura consentita dalla potentia essendi che la specifica.
Come l’Eros platonico, figlio di Poros e di Penia130, l’ente tommasiano, considerato
come desiderio del proprio compimento, nasce e cresce grazie
all’abbondanza ed alla povertà: lo esse ut actus e l’essenza potenziale tendono,
attivamente e passivamente, allo esse in actu della sostanza, delle sue
proprietà, delle sue operazioni, anzitutto di quella più perfetta. Pertanto, la
composizione reale instaura una teleologia nell’ente, che lo indirizza dall’interno
verso il proprio fine. E siccome il raggiungimento di quest’ultimo
passa attraverso le tappe dell’essere sostanziale poi dell’essere operante, la
distinzione fra la bontà secundum quid della sostanza e la bontà simpliciter
dell’operazione cessa di essere fattuale (quia) e trova la sua legittimità
causale (propter quid): se è vero che “omne enim ens ordinatur in finem
propter suam actionem”131, non è soltanto perché l’agire perfeziona de facto
l’ente, ma è sopratutto perché l’agire viene esatto dallo esse specificato
dall’essenza come sua ultima espansione.
Dalla nostra investigazione risulta ora che lo esse, costitutivo intimo dell’ente
in quanto ente132, lo è anche della sua bontà tramite le sue partecipazioni
successive in seno al supposito.133 Infatti, la bontà di un cosa consiste
nella sua perfezione134, che si dispiega sui due piani della sostanza in
atto primo e dell’operare in atto secondo; ora, lo esse è il principio della
prima bontà mediante l’essenza originaria, ed è il principio della seconda
______
129 Sui ruoli rispettivi dell’attualità e del limite nella genesi dell’agire creato, cf. D.
KAMBEMBO, “Essai d’une ontologie de l’agir”, 356-387; 497-538, in particolare 377-
384; S. BRETON, “Être et agir (réflexions sur un axiome)”, 241-253; 317-344.
130 Cf. PLATONE, Simposio, 203a-c.
131 CG III, c. 16, n. 1 (Marietti, n. 1985).
132 Cf. Quaestiones de quolibet IX, q. 2, a. 2, in c: “esse dicitur actus entis in quantum
est ens, idest quo denominatur aliquid ens actu in rerum natura”.
133 Cf. ST I, q. 3, a. 4, in c: “esse est actualitas omnis formae vel naturae: non autem
bonitas vel humanitas significatur in actu, nisi prout significamus eam esse” (corsivo
nostro).
134 Cf. CG III, c. 24, n. 6 (Marietti, n. 2051): “unumquodque in tantum bonum sit in
quantum est perfectum”; stessa formula in c. 20, n. 2 (Marietti n. 2010).
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Esse, essentia, ordo
mediante la sostanza già costituita. L’ordo, consecutivo al modus ed alla
species nella ternarietà agostiniana, si iscrive fra i due livelli di bontà, e per
questo è riconducibile alla “intenzionalità” per la quale l’ente in atto primo
tende all’atto secondo, in modo quasi attivo da parte dell’essere come
atto (mediato dalla forma), ed in modo quasi passivo da parte del soggetto
di tale essere (radicato nell’essenza come potenza di essere).135 Così l’atto
di essere, precisamente considerato in quanto atto dell’ultimo atto operativo
—actualitas omnium actuum—, è il principio del fine quo al quale è
ordinata la sostanza creata. Questo punto è stato colto molto bene da
Heinrich Beck, che lo riporta dentro il circolo delle tre cause estrinseche
dell’operare, come è dovveroso quando si tratta della causalità, giacché
causae sunt ad invicem causae:
L’operare scaturisce dunque dall’“attività” dell’essere (ut “principium
operationis”), esso proviene dal suo significato (est “ratione” actus primi)
e porta quest’ultimo alla sua piena espressione ed al suo pieno sviluppo
(est “finis”); onde l’atto di essere è ad un tempo causa efficiente dell’atto
operativo che lo pone fuori di sé, causa esemplare che lo specifica, e causa
finale che lo compie.136
Rispetto all’atto operativo, l’atto di essere ha dunque, in primo luogo,
valore di causa efficiente, perché tutti i livelli di essere in atto, nel
supposito, provengono dall’atto di essere come dalla loro prima fonte.
Questo esse intensivo essendo poi specificato dall’essenza che, ricevendolo,
gli assegna la sua intensità fondamentale, esso è sempre, finché esiste la
sostanza che fa essere, l’atto fondante di tale determinata natura, e non di
un’altra, cosicché l’operazione ch’esso provoca, è sempre un’operazione
proporzionata a quella natura. Ma l’attività operativa essendo l’ultima
______
135 Cf. QD De potentia, q. 1, a. 1, in c: “Sicut autem nihil patitur nisi ratione potentiae
passivae, ita nihil agit nisi raitone actus primi, qui est forma”.
136 Nostra traduzione di H. BECK, Der Akt-Charakter des Seins, Eine spekulative
Weiterführung der Seinslehre Thomas v. Aquins aus einer Anregung durch das dialektische
Prinzip Hegels, 51: “Das Wirken entpringt also aus der ‘Aktivität’ des Seins (ut
‘principium operationis’), es kommt von seinem Sinngehalt her (est ‘ratione’ actus primi)
und bringt diesen voll zum Ausdruck und zur Entfaltung (est ‘finis’); der Seinsakt ist
damit gleichsam heraussetzende Wirkursache, formprägende Exempla-rursache und zu
vollendende Zielursache des Wirkaktes”.
62
Alain Contat
attualità che, nel supposito, promana dall’atto di essere, essa lo porta a
compimento, facendolo passare dallo stato di esse ut actus a quello di esse
in actu, e consentendogli di realizzare, in questo modo, la sua natura di
atto. Quindi se, in un senso, l’operari è il fine dello esse, in quanto l’atto di
essere tende ultimamente, nell’ente finito, all’atto dell’operare, è anche
vero, in un altro senso, che lo esse è il fine dello operari, perché l’operazione
ha come scopo l’attuazione della virtus essendi costitutiva dello stesso esse,
quindi la sua autorealizzazione. Lo esse è così l’alpha e l’omega dell’ente:
partendo dallo esse come fonte di essere, il dinamismo dell’ente creato,
mediato dall’essenza, vi ritorna come a suo fine quando raggiunge la
massima attualità di cui è capace.137
Principio quasi efficiente, esemplare e finale dell’ente, l’atto di essere
non va però neanche minimamente compreso come una monada leibniziana
senza finestre che, una volta concreato da Dio insieme alla sua essenza,
si svilupperebbe in maniera completamente autonoma. Tutto all’opposto,
l’ente che risulta dallo esse partecipato da solo non ha e non si dà
l’attualità che, a tutti i livelli, è sua. Già nell’ordine predicamentale,
l’esperienza attesta che l’agire delle sostanze corporali, ed anche quello
dell’uomo, si effettua in interazione con il loro ambiente, che sia fisica o
biologica. Poi, al di sopra di questa passività della materia, c’è comunque,
sul piano strettamente metafisico, la potenzialità dell’essenza creata, che si
ripercuote nelle sue facoltà operative, le quali non possono operare senza
una mozione attuante, in virtù del principio, valido in tutta l’ampiezza
analogica del termine “movere”, quidquid movetur ab alio movetur. Per
questa ragione, nell’ordine trascendentale, l’“applicazione” della virtù operativa
creata alla sua operazione, cioè il suo passaggio dall’atto primo
all’atto secondo, richiede un intervento della causa prima, che toglie la
potenzialità dell’agente creato e “libera”, per così dire, il suo potere dinamico.
138 Ma, più profondamente ancora, dobbiamo sottolineare che lo
______
137 Cf. É. GILSON, “Éléments d’une métaphysique thomiste de l’être”, 117:
“L’opération vient donc de l’être de l’étant (‘operatio sequitur esse ’) et lui retourne
comme le posant dans sa complète actualité”.
138 Cf. QD De potentia, q. 3, a. 7, in c: “Sed quia nulla res per seipsam movet vel agit nisi
sit movens non motum. Tertio modo dicitur una res esse causa actionis alterius in quantum
movet eam ad agendum; in quo non intelligitur collatio aut conservatio virtutis activae,
sed applicatio virtutis ad actionem; sicut homo est causa incisionis cultelli ex hoc ipso
quod applicat acumen cultelli ad incidendum movendo ipsum. Et quia natura inferior
63
Esse, essentia, ordo
esse partecipato che sta a fondamento di tutta la ricchezza dell’ente non fa
che mediare la causalità trascendente universale dello Esse subsistens, al
quale deve tutta la sua attualità:
Primus autem effectus Dei in rebus est ipsum esse, quod omnes alii
effectus praesupponunt, et supra quod fundantur. Necesse est autem
omne quod aliquo modo est, a Deo esse.139
Cum autem Deus sit ipsum esse per suam essentiam, oportet quod esse
creatum sit proprius effectus eius; sicut ignire est proprius effectus ignis.
Hunc autem effectum causat Deus in rebus, non solum quando primo esse
incipiunt, sed quandiu in esse conservantur; sicut lumen causatur in aere a
sole quandiu aer illuminatus manet. Quandiu igitur res habet esse, tandiu
oportet quod Deus adsit ei, secundum modum quo esse habet. Esse autem
est illud quod est magis intimum cuilibet, et quod profundius omnibus
inest, cum sit formale respectu omnium quae in re sunt, ut ex supra dictis
patet. Unde oportet quod Deus sit in omnibus rebus, et intime.140
In questi due brani, l’Aquinate ribadisce che lo esse partecipato fonda
tutte le perfezioni partecipate a sua volta dall’ente, per cui è massimamente
“formale” rispetto a loro; ora questo essere è precisamente un atto di
essere partecipato, che rimanda, in quanto tale, all’Essere per essenza; perciò
Dio, mediante lo esse, non soltanto crea le cose, ma le conserva, e vi è
presente ed operante al più intimo. Nel nostro primo paragrafo abbiamo
stabilito che Dio, Essere sussistente, è causa efficiente, esemplare e finale
dell’ente per partecipazione; poi abbiamo appena mostrato che l’atto di
essere creato esercita, da canto suo, questa triplice mansione, anche se lo fa
sotto diverse rationes; di conseguenza, dobbiamo concludere adesso che
l’atto di essere partecipato funge da vicario della triplice causalità divina
all’interno della creatura. Ne risulta che la mediazione dello esse riguarda,
______
agens non agit nisi mota, eo quod huiusmodi corpora inferiora sunt alterantia alterata;
caelum autem est alterans non alteratum, et tamen non est movens nisi motum, et hoc
non cessat quousque perveniatur ad Deum: sequitur de necessitate quod Deus sit causa
actionis cuiuslibet rei naturalis ut movens et applicans virtutem ad agendum”. Abbiamo
rispettato la punteggiatura dell’edizione Pession (Marietti), benché il sintagma “Tertio
modo” debba chiaramente essere preceduta da una virgola, e non da un punto.
139 Compendium theologiae, I, c. 68.
140 ST I, q. 8, a. 1, in c.
64
Alain Contat
oltre allo exitus, anche il reditus, nella misura in cui l’ente finito tende,
attraverso il proprio atto di essere, ad assimilarsi all’Essere sussistente.
Questo ritorno della creatura al Creatore si compie in due momenti essenziali.
Il primo è il desiderio naturale di conservarsi nel proprio essere:
ipsum esse creatum est similitudo diuinae bonitatis; unde in quantum
aliqua desiderant esse desiderant Dei similitudinem et Deum implicite.141
La ratio boni essendo l’appetibilità, e lo esse creatum essendo una partecipazione
allo Ipsum esse subsistens, il desiderio dell’essere, che precede
(nella generazione) o che segue (nella conservazione) la costituzione dell’ente,
è dunque un desiderio di somiglianza con l’essere divino. C’è
pertanto un primo ordo consecutivo allo esse ed alla essentia, che è
l’inclinazione dell’ente a perseverare nel proprio essere in atto, ed a mantenersi
perciò nella dipendenza della Fonte di tutto l’essere. Il secondo
momento del reditus in Deum è il desiderio innato che spinge la creatura
verso la sua perfezione seconda:
Unumquodque autem intantum perfectum est, inquantum est actu:
nam potentia sine actu imperfecta est. […] res unaquaeque dicitur esse
propter suam operationem.142
Abbiamo messo il verbo “esse” in risalto, perché non viene inteso qua
in maniera meramente copulativa, me in senso propriamente ontologico:
“ogni cosa viene detta essere per la sua operazione”, e non semplicemente
“ogni cosa viene detta in rapporto alla propria operazione”. L’Aquinate
tocca dunque implicitamente, in questo enunciato, l’ordinazione dello esse
allo operari che abbiamo cercato di analizzare. A sua volta, la bontà raggiunta
dalla sostanza operante partecipa alla bontà sussistente di Dio,
______
141 QD De ueritate, q. 22, a. 2, ad 2. Cf. anche CG II, c. 53, n. 5 (Marietti, n. 1286):
“Assimilatio autem cuiuslibet substantiae creatae ad Deum est per ipsum esse”; CG III,
c. 19, n. 3 (Marietti, n. 2006): “in rebus evidenter apparet quod esse appetunt naturaliter
[...]. Secundum hoc autem esse habent omnia quod Deo assimilantur, qui est ipsum
esse subsistens: cum omnia sint solum quasi esse participantia”.
142 ST I-II, q. 3, a. 2, in c. Nello stesso contesto, quello della beatitudine perfetta che
spetta alla creatura spirituale, cf. ST I, q. 62, a. 1, in c: “unumquodque naturaliter desiderat
suam ultimam perfectionem”.
65
Esse, essentia, ordo
cossiché la cosa creata tende, attraverso la propria perfezione ultima, alla
somiglianza con Dio. In questo modo, il secondo ordo consecutivo all’ente
creato coincide con la sua inclinazione naturale verso il suo operare perfettivo,
nel quale esso raggiunge la massima assimilazione al Creatore di
cui è capace.143 Così si compie il circolo dell’ente creato, nel quale la virtus
essendi dell’atto di essere procede da Dio, si proporziona all’essenza, e ritorna
a Dio attraverso i due momenti dell’essere sostanziale e dell’operare:
alla “discesa” dello esse nella potentia essendi corrisponde la sua “ascesa”
nell’essere in atto dell’essenza, poi in quello dell’operare.144
Con l’apparire di questo circolo, la nostra investigazione è giunta al suo
termine. Possiamo ora riassumerla in tre serie di conclusioni. Formalizziamo,
per cominciare, la risposta ai due quesiti relativi al reditus. Perché
l’ente creato dall’Essere sussistente deve ritornarci mediante la propria
operazione? La ragione di fondo sta proprio in ciò che Fabro chiama
l’“emergenza” dello esse partecipato sull’essenza che lo riceve, per cui l’atto
di essere, in quanto atto, trascende successivamente la sua determinazione
essenziale primaria poi le sue determinazioni accidentali seconde, per espandersi
ultimamente in operatività. In questo processo, l’attualità dell’essere
spiega perché esso supera i contenuti formali, mentre la sua limitazione
da parte dell’essenza fa capire perché la sua espansione ulteriore è
di tipo operativo, di tal modo che, nella creatura, l’agire è sempre altro
della sostanza. Così la differenza operativa viene ancorata due volte nella
differenza ontologica: l’ente finito opera in virtù del proprio esse e della
sua intrinseca comunicabilità; ma l’operare dell’ente finito differisce dalla
sua sostanza a causa dell’essenza e della limitazione ch’essa impone alla
virtus essendi dello esse. E come l’ente creato ritorna all’Essere sussistente
mediante questo operare? La soluzione di questa seconda domanda si
______
143 Cf. CG III, c. 24, n. 6 (Marietti, n,. 2051): “[...] cum unumquoque in tantum bonum
sit in quantum est perfectum. Secundum vero quod tendit ad hoc quod sit bonum,
tendit in divinam similitudinem: Deo enim assimilatur aliquid inquantum bonum est.
Bonum autem hoc vel illud particulare habet quod sit appetibile inquantum est similitudo
primae bonitatis. Propter hoc igitur tendit in proprium bonum, quia tendit in
divinam similitudinem, et non e converso”.
144 Cf. Scriptum I, d. 14, q. 2, a 2, in c: “in exitu creaturarum a primo principio attenditur
quaedam circulatio vel regiratio, eo quod omnia revertuntur sicut in finem in id a
quo sicut principio prodierunt. Et ideo oportet ut per eadem quibus est exitus a principio,
et reditus in finem attendatur”. In effetti, exitus e reditus hanno lo stesso principio,
lo Esse sussistente, e lo stesso mediatore, lo esse partecipato.
66
Alain Contat
radica interamente in quella della prima. Infatti, abbiamo mostrato che la
differenza ontologica si concretizza nella dualità di atto e di soggetto, cosicché
ogni strato di essere in atto richiede una potenza prossima correlativa
che lo possa ricevere. In questo modo, la coppia originaria di actus
essendi e di potentia essendi produce successivamente quelle di forma accidentale
e di sostanza, poi di operazione e di facoltà operativa. Alla diffusione
dell’atto di essere nell’essere sostanziale, poi nell’essere delle forme
accidentali, e finalmente nell’essere delle operazioni, corrisponde quindi la
concatenazione dei soggetti potenziali, dall’essenza potenziale all’essenza
reale, poi da quest’ultima alle potenze operative. Attraverso questo sviluppo
in spirale, l’attualità virtuale dello esse —la sua virtus essendi— riempie
l’ente e lo porta al suo compimento. Ora il principio originario di questa
attuazione successiva essendo una partecipazione finita all’Atto di essere
infinito, è Dio stesso che, nel più profondo dell’ente finito, lo governa e lo
conduce al massimo di perfezione di cui è capace. Così la finalità divina
dell’ente per partecipazione si iscrive nella differenza onto-teologica che lo
costituisce.
La nostra seconda serie di conclusioni riguarda la ternarietà dell’ente
finito. La composizione reale fra l’atto di essere e l’essenza, la cui centralità
non fa dubbio in tomismo, implica la sequenza ternaria di esse-essentiaordo,
dove il terzo momento scaturisce necessariamente dai due primi, e
significa l’ordinazione dell’ente al suo fine tramite l’operare. Senza contestare,
anzi presupponendo l’assoluta necessità della distinzione fra la sostanza
e l’operazione, dobbiamo allora sottolineare che l’ente in senso pieno
è l’ente in atto secondo, nel quale l’attualità virtuale dello esse ut actus è
pervenuta alla perfezione del duplice esse in actu, formale ed operativo. È
questo ente attualmente operante che è, nella misura permessa dalla sua
essenza, pienamente assimilato all’Essere divino. In effetti, l’efficienza divina,
mediata dallo esse, vi produce il massimo livello di attualità totale possibile,
perché si prolunga fino all’operazione; l’esemplarità divina, delimitata
dalla essenza, vi imprime la massima somiglianza possibile, perché si
riflette in una natura condotta al suo termine; e la finalità divina, espressa
dallo ordo, vi esercita la massima attrazione possibile, perché si diffonde
nella cosa fino alla sua perfezione ultima, cioè al suo bonum simpliciter. Se
la causalità di Dio è dunque triplice, come il vestigio ch’essa lascia nell’ente
finito, il rapporto di partecipazione è invece fondamentalmente uno,
perché unico è l’atto di essere partecipato attraverso il quale l’Essere sussis67
Esse, essentia, ordo
tente crea, modella e finalizza l’ente. Nell’ente reale, infatti, l’essere intensivo
fonda, in ultima analisi, i tre membri della nostra sequenza: lo
esse è, ovviamente, lo esse ut actus che tutto attua; la essentia è, quando
viene contemplata nella sua attualità, l’essere in quanto specificato
dall’essenza, non solo in rapporto alla sostanza, ma anche agli accidenti
ed alle operazioni che vengono sigillati dalla specie della cosa145; e lo
ordo è, come abbiamo stabilito, l’espansione operativa dell’essere mediato
e specificato dall’essenza. Ciononostante, è chiaro che ciascuna di queste
tre istanze, presa a parte, è realmente distinta dalle due altre, e gioca un
ruolo insostituibile nell’ente creato: lo esse ne è il primo atto attuante;
l’essenza, il limite specificativo; e l’ordine concretizzato nell’operazione,
l’ultimo atto attuato.146
Il nostro terzo ed ultimo gruppo di conclusioni va oltre il nostro studio.
I due guadagni teoretici che abbiamo appena riassunti ci sembrano
assai importanti per le sorti del pensiero tomista, e questo addirittura su
diversi registri epistemologici. La metafisica stessa, in primo luogo, vede
aprirsi, con la ternarietà esse-essentia-ordo un campo di investigazioni che è
stato finora assai meno esplorato di altri, come i trascendentali o le cinque
vie, benché venga definito da due tesi che non hanno nulla di periferico
per la scienza dell’ente in quanto ente: ogni sostanza è per la sua operazione;
Dio è causa efficiente, esemplare e finale della sostanza operante. La
______
145 Cf. ST I, q. 14, a. 4, ad 3: “omnis operatio specificatur per formam quae est principium
operationis”. La forma sostanziale essendo, per una determinata sostanza, il principio
radicale delle sue operazioni, queste le debbono la loro determinazione generica, alla
quale si aggiungono, nel vivente, le specificazioni ulteriori che provengono dalle potenze
e dai loro oggetti.
146 Sotto questo aspetto, si dovrebbe ricercare fino a quale punto si può ammettere un
movimento propriamente dialettico all’interno dell’ente creato, sulla scia di P. W. ROSEMANN,
Omne ens est aliquid, Introduction à la lecture du “système” philosophique de saint
Thomas d’Aquin, 63: “le principe fondamental de l’ontologie thomiste –‘tout étant n’est
quelque chose qu’en n’étant pas quelque chose d’autre’– implique et débouche
immédiatement sur une conception selon laquelle l’être doit ‘devenir’ lui-même dans un
mouvement dialectique. Car l’être, avons-nous dit, doit pour ainsi dire ‘sortir’ de son ensoi,
s’éloigner de lui-même et s’aliéner lui-même pour constituer, dans ce mouvement
aliénant, sa propre identité”. In questo accostamento dello esse tomistico al Sein hegeliano,
vediamo comunque due debolezze: l’atto di essere, in primo luogo, non emana l’essenza,
ma viene con essa concreato; poi, in secondo luogo, né l’essenza né l’operazione sono una
vera “alienazione” dell’essere, poiché la prima ha la funzione positiva, e non primariamente
negativa o privativa, di assegnare all’ente il suo grado di essere, mentre la seconda ha il
ruolo, ugualmente positivo, di realizzare l’ultima attuazione della sua virtus essendi.
68
Alain Contat
rilevanza di questi due enunciati e della loro giustificazione teoretica non
può sfuggire a nessuno. Attraverso loro, in secondo luogo, l’antropologia e
l’etica filosofiche potrebbero ritrovare un legame organico molto più forte
con la metafisica, perché le tematiche dell’agire, del farsi e della trascendenza
verrebbero ancorate nella duplice partecipazione costitutiva
dell’ente creato, quella immanente che risolve i livelli successivi di essere in
atto nell’atto intensivo di essere (resolutio secundum rationem), e quella
trascendente che risolve quest’ultimo nell’Essere sussistente ed impartecipato
(resolutio secundum rem). Alla dissoluzione del mistero dell’essere
nell’antropologia o nell’ermeneutica, che caratterizza tanti settori della
cultura odierna, si potrebbe allora opporre una vera e convincente fondazione
onto-teologica dell’uomo e delle sue attività. Finalmente, in terzo
luogo, l’approfondimento propriamente metafisico della triplice scansione
dell’ente dovrebbe restituire alla filosofia dell’essere la sua più alta missione,
quella di ancilla theologiae, che purtroppo è andata ampiamente smarrita
durante gli ultimi decenni. In effetti, se l’ente in atto secondo, cioè
l’ente perfetto, rispecchia l’efficienza, l’esemplarità e la finalità divina,
allora la sacra doctrina perfeziona veramente la ragione quando, al di sopra
della ragione, essa insegna che “processio creatCreaL’ontologiAcréacréaOntologiACrea