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Thursday, July 09, 2015

GIACINTO PLESCIA Blog - giaxplex.simplesite.com

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Ontologiax metafisicA FilogosofiAIl rapporto dei filosofi analitici con la metafisica è stato per lungo tempo difficile
e conflittuale. 

In un certo senso, il movimento analitico venne inizialmente
caratterizzandosi proprio in contrapposizione alla tradizione filosofica dominante dell’Ottocento, tutta assorta nell’impresa di rispondere a Kant attraverso rielaborazioni più o meno dogmatiche dell’idealismo critico.    



In una Cambridge in cui Bradley e McTaggart dominavano incontrastati, Moore non esitava ad
accusare di miopia le teorie metafisiche «che pretendono di fornire un’agevole strada per superare le difficoltà che ostacolano il cammino dell’indagine accurata  



»1. Russell scriveva che i grandi problemi della metafisica nascevano per la

maggior parte da confusioni e fraintendimenti legati alla «cattiva grammatica»2,

ovvero a un uso improprio del linguaggio e alla sua interpretazione affrettata e

superficiale. E di lì a poco Carnap sarebbe giunto a dichiarare che «le presunte

proposizioni della metafisica si rivelano, all’analisi logica, pseudoproposizioni

».3 Più che un vero e proprio rifiuto della metafisica, tuttavia, queste manifestazioni

critiche costituivano un attacco a un certo modo di fare metafisica,

troppo spesso improntato all’abuso di paroloni («l’ente», «l’assoluto»,

«l’idea») e costrutti oscuri («il nulla nulleggia») piuttosto che alla chiarezza e al

rigore argomentativo. Soprattutto rispetto ad altri campi di indagine filosofica,

gli studi di metafisica dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento erano molto

distanti dagli standard di accuratezza che la svolta analitica andava imponendo

ed era naturale che si finisse col mettere sotto accusa l’intera disciplina. Tut-

1 Moore, 1898, p. 186.

2 Russell, 1918-19, p. 229, tr. it.

3 Carnap, 1932, p. 505 tr. it.

2

tavia questo stato di cose non corrispondeva necessariamente a un divorzio di

interessi. E dopo una prima fase dedicata soprattutto alla disinfezione e alla

delimitazione del territorio si può dire che la filosofia analitica non abbia trascurato

di confrontarsi (muovendo da una chiara formulazione delle domande prima

ancora che dalla ricerca delle risposte) con tutta una serie di questioni che

rientrano a pieno titolo nel campo d’indagine della metafisica.

In questo capitolo ci soffermeremo soprattutto su due ordini di questioni,

sui quali la riflessione dei filosofi analitici è stata particolarmente approfondita:

l’identità degli oggetti materiali (intesi come oggetti del «senso comune») e il

problema degli universali. Non è ovviamente una lista esaustiva e forse nemmeno

un campione rappresentativo, ma si tratta di due temi che consentono di evidenziare

aspetti metodologici e linee di tendenza che caratterizzano l’approccio

analitico alla metafisica nel suo complesso. (Per un quadro più esaustivo

rinviamo alla sezione bibliografica al termine del capitolo.) Alla rassegna critica

su questi due temi faremo inoltre precedere qualche considerazione concernente

un terzo tema, di ordine più generale e in certa misura preliminare: la questione

ontologica. Se infatti la metafisica—secondo una definizione diffusa alla quale ci

atterremo—si occupa fondamentalmente della natura ultima di tutto ciò che esiste,

attiene alla metafisica anche il compito preliminare di stabilire che cosa esiste,

o quantomeno di fissare dei criteri per stabilire che cosa sia ragionevole includere

in un accurato inventario del mondo. La messa a punto di tali criteri definisce,

appunto, la questione ontologica, e tra i meriti della filosofia analitica vi

è senz’altro quello di avere contribuito a chiarirne coordinate, sfaccettature, e

ramificazioni (e di averne generalmente tenuto presente anche nel contesto di

indagini attinenti ai temi più propriamente metafisici come quelli, appunto,

della natura degli oggetti e delle proprietà).

II - Esistenza e forma logica

L’approccio analitico all’ontologia nasce dalla constatazione che la domanda

«Che cosa esiste?» presenta un’ambiguità di fondo. In un certo senso, come

scriveva Quine nel 1948, si tratta di una domanda semplice cui si può rispondere

con una sola parola: «Tutto».4 Esiste tutto in quanto non può esservi nulla

che non esiste, altrimenti si cadrebbe in quel groviglio di essere e non-essere (la

«barba di Platone») che ha tormentato la storia della filosofia occidentale (e

4 Quine, 1948, p. 3 tr. it

3

sulla quale anche il «rasoio di Occam» si è ripetutamente spuntato). In questo

primo senso, quindi, la questione ontologica non può che trovare tutti

d’accordo e non ha alcuna pertinenza con la metafisica. Dire che qualcosa non

esiste è semplicemente una «contraddizione in termini».5 Vi è però anche un

senso in cui la domanda «Che cosa esiste?» ammette risposte diverse. Esiste

tutto ma non, naturalmente, le chimere o i fantasmi, e per Quine non esistevano

nemmeno le proprietà, gli individui possibili, o altre entità causalmente inerti

come i significati e le proposizioni, che filosofi di diverso orientamento sarebbero

invece inclini a includere nel proprio inventario ontologico. Quando Quine

diceva «tutto» intendeva riferirsi né più né meno che al contenuto materiale

dello spazio-tempo6—una e una sola entità per ogni distinta regione spaziotemporale—

al più con l’aggiunta di quelle entità astratte che sono l’essenza

della matematica su cui si reggono le scienze fisiche7. Per altri filosofi il quantificatore

«tutto» si riferisce ad altro, e il loro inventario sarà di conseguenza diverso

da quello di Quine. In questo senso, quindi, la questione ontologica è

tutt’altro che banale e nessuno si aspetta di trovare una risposta universalmente

accettabile. Per ognuno di noi esiste tutto ciò su cui siamo disposti a quantificare;

ma possiamo essere disposti a quantificare su cose diverse.

1. Il requisito della trasparenza ontologica

Anche in questo secondo senso, tuttavia, non è detto che la controversia sia

autentica o irriducibile, così come non è detto che le intese siano sempre reali.

Ed è proprio su questo punto che la questione ontologica ha attirato l’attenzione

dei filosofi analitici sin dagli inizi. Le accuse di «confusioni e fraintendimenti

» che Russell lanciava alla metafisica tradizionale costituivano evidentemente

anche un invito a non commettere lo stesso errore, e in particolar modo a

non cadere nei mille trabocchetti che si annidano nelle nostre pratiche linguistiche.

Quando diciamo che il cavallo alato non esiste, intendiamo forse parlare di

un individuo che non esiste? Quando diciamo che Giovanni ha dato uno schiaffo

a Maria intendiamo davvero chiamare in causa un’entità—uno schiaffo—che

Giovanni avrebbe dato a Maria? Quando Alice afferma di non aver visto nessuno

sulla strada, intende davvero parlare di un’entità chiamata “nessuno”? È evidente

che non ci sono risposte immediate a queste domande (nemmeno nel ter-

5 Quine, 1940, p. 150.

6 Vedi per es. Quine, 1960, p. 212 tr. it

7 Cf. Quine, 1951, p. 43 tr. it.

4

zo caso, come insegna la disavventura di Polifemo). L’unico modo per esprimere

le nostre convinzioni ontologiche è di formulare asserti che riteniamo veri;

tuttavia il linguaggio di cui ci serviamo per formulare questi asserti presenta

ambiguità e imprecisioni che rendono difficile instaurare un nesso immediato tra

le parole che usiamo e le entità a cui esse fanno riferimento (quelle entità dalla

cui esistenza dipende la verità dei nostri asserti). Sarebbe del resto sorprendente

se le cose stessero altrimenti. Quindi, se da un lato l’esame delle nostre pratiche

linguistiche veniva visto dai primi filosofi analitici come il necessario punto

di partenza per ogni indagine filosofica, inclusa la questione ontologica («la

strada migliore, anzi, l’unica sicura», ha scritto Strawson8), dall’altro lato non

mancava l’enfasi sulla necessità di fare attenzione a non farsi sviare dai difetti

della grammatica. Il linguaggio ordinario «non è in ordine così com’è» per il metafisico

proprio come non lo è per il logico o per il filosofo della matematica, e

non è escluso che in certi casi la controversia ontologica nasca proprio

dall’inavvertenza linguistica.

L’esempio più classico di questo modo di affrontare le cose risale agli albori

del movimento analitico ed è costituito dall’analisi russelliana delle asserzioni

esistenziali contenenti descrizioni definite, come

(1) Il cavallo alato non esiste,

che sembrano portare dritte dritte alla barba di Platone.9 L’asserto (1) è vero.

Ma che cosa lo rende tale? Affinché un asserto elementare della forma soggettopredicato

sia vero è necessario (e sufficiente) che l’entità denominata dal termine

in posizione di soggetto soddisfi la condizione espressa dal termine in posizione

di predicato. Tuttavia in questo caso non vi è nulla che corrisponda al

termine in posizione di soggetto. Anzi, è proprio l’assenza di un’entità del genere

che si vuole affermare. Ebbene, la risposta di Russell consiste proprio

nell’escludere che la (1) abbia la forma di un asserto elementare (o che sia la negazione

di un asserto del genere). Il fatto stesso che abbia senso chiedersi se

esiste il cavallo alato costituisce per Russell un motivo sufficiente per ritenere

che ‘il cavallo alato’ non sia un autentico termine singolare (e non possa quindi

occupare la posizione di soggetto). Si tratta piuttosto di un «simbolo incompleto

» che non ha significato autonomo e che scompare a una più attenta analisi

della struttura logica dei contesti linguistici in cui compare. Nella fattispecie,

un’asserzione come (1) viene analizzata come equivalente a

8 Strawson, 1959, p. 9 tr. it.

9 Il testo principale è Russell, 1905.

5

(1a) Non si dà il caso che esista uno e un solo cavallo alato,

ovvero come negazione della congiunzione delle due asserzioni seguenti:

(2) Esiste almeno un cavallo alato.

(3) Esiste al più un cavallo alato.

L’analisi semantica di questi due congiunti non presenta problemi di sorta. E

siccome uno di loro risulta falso non vi è alcuna difficoltà nel negare la congiunzione.

Detta diversamente, per Russell la (1) non è altro che una comoda abbreviazione

per un’asserzione, la (1a), strutturalmente più complessa ma ontologicamente

più trasparente, e chi non apprezza questo fatto corre il rischio di

prendere un serio abbaglio.10

Questa stessa analisi si applica, evidentemente, a ogni asserzione la cui

forma grammaticale segue lo schema

(4) Il tal dei tali è così e cosà.

Non solo: si applica anche nei casi in cui il descrittore ‘il tal dei tali’ è sostituito

da parole che comunemente usiamo alla stregua di nomi propri, come ‘Pegaso’

o ‘Giovanni’. Proprio in quanto ha senso chiedersi se Pegaso o Giovanni esistano,

per Russell le parole in questione non sono dei nomi veri e propri bensì

delle descrizioni camuffate. Per esempio, ‘Pegaso’ potrebbe essere visto come

un’abbreviazione di ‘il cavallo alato’, e quindi un’asserzione come

(5) Pegaso non esiste

potrebbe essere identificata con (1) e trattata allo stesso modo. In certi casi

può essere difficile individuare la descrizione che si nasconde dietro un nome

apparente, ma questo è un problema pratico e non affligge la portata teorica

dell’analisi di Russell. Inoltre esiste sempre la possibilità—evidenziata qualche

anno più tardi proprio da Quine—di eliminare tutti i nomi in maniera sistematica,

utilizzando descrizioni definite in cui il predicato descrittivo è costruito

direttamente a partire dai «nomi» stessi. ‘Pegaso’ potrebbe corrispondere

alla descrizione ‘quell’unica cosa chiamata: P-e-g-a-s-o’, o più semplicemente

‘quell’unica cosa che pegasizza’, sicché la (5) equivarrebbe in ultima analisi a

(5a) Nulla pegasizza.

10 Naturalmente quest’analisi ha i suoi critici. Per esempio Strawson, 1950, ha obiettato

che un enunciato elementare non asserisce l’esistenza e l’unicità di un’entità corrispondente al

termine in posizione di soggetto: lo presuppone.

6

In tal modo ogni nome apparente verrebbe eliminato a favore di locuzioni predicative

e la «barba di Platone» si dissolverebbe del tutto: se da un lato non ha

senso usare un nome che non si riferisce a nulla, dall’altro lato non vi è problema

alcuno nell’uso di un predicato che non è vero di nulla, ovvero un predicato

la cui estensione è data dall’insieme vuoto. Ne segue che per Russell e Quine gli

unici termini singolari veri e propri sono i pronomi, come ‘questo’ o ‘quello’,

ovvero quelle espressioni che nella notazione della logica del primo ordine corrispondono

alle variabili individuali. Non ha infatti senso chiedere «Esiste questo?

» così come nella logica del primo ordine non ha senso chiedere se esiste il

valore di una variabile. Per Russell questa conclusione si salda direttamente a

una tesi metafisica ben precisa, secondo la quale le uniche cose che esistono sono

quelle di cui si ha esperienza diretta (le descrizioni consentirebbero invece di

chiamare in causa entità di ogni sorta, inclusi oggetti impossibili come il circolo

quadrato o la radice quadrata di –2).11 Per Quine, più semplicemente, si tratta

di una conclusione che non fa che riflettere il criterio ontologico di partenza:

esiste tutto, ovvero tutto ciò che cade nel campo di azione di un quantificatore,

ovvero tutto ciò che può costituire il valore di una variabile individuale. «Essere

non è altro che essere il valore di una variabile».12

Ora, l’analisi di Russell e Quine si applicava solo a certi aspetti del linguaggio

ordinario, consentendo a chi la accettasse di affrontare soltanto alcuni

dei trabocchetti ontologici che lì si nascondono. Ma si tratta solo di un esempio.

Dal punto di vista che qui ci interessa l’aspetto essenziale di questo modo

di procedere è il ricorso all’analisi logica e alla conseguente parafrasi in forma

canonica, apparentemente prosaica e poco idiomatica ma del tutto trasparente

(o «intrinsecamente non fuorviante», nelle parole di Ryle13) sul piano ontologico.

Proprio questo è il tratto distintivo dell’approccio analitico all’ontologia; e

nei cento anni successivi alla pubblicazione di ‘On Denoting’, che Ramsey non

esitava a chiamare un «paradigma della filosofia»14, la strategia della parafrasi

ha costituito lo strumento principale con cui la questione ontologica è stata affrontata

in tanti altri casi. Per esempio, ci si chiedeva sopra se l’asserzione

(6) Giovanni ha dato uno schiaffo a Maria

debba rinviare all’esistenza di un’entità corrispondente alla descrizione indefini-

11 Vedi Russell, 1910.

12 Quine, 1939, p. 708.

13 Ryle, 1931.

14 Ramsey, 1931, p. 279 tr. it, n.12 (da un testo inedito del 1929).

7

ta ‘uno schiaffo’. Evidentemente la risposta è affermativa se interpretiamo (6)

come un’asserto esistenziale:

(6a) Tra le cose che Giovanni ha dato a Maria vi è (anche) uno schiaffo.

Questa interpretazione stabilirebbe un’analogia profonda tra (6) e un enunciato

come

(7) Giovanni ha dato un libro a Maria.

in cui il riferimento al libro è indiscutibile. Le cose però cambiano se riformuliamo

(6) come un’asserto relazionale in cui si dice come Giovanni si è comportato

nei confronti di Maria, senza chiamare in causa altre entità di sorta:

(6b) Giovanni ha schiaffeggiato Maria.

In tal caso l’espressione l’analogia tra (6) e (7) sarebbe solo apparente.

L’espressione ‘ha dato uno schiaffo’ sarebbe semplicemente una variante di ‘ha

schiaffeggiato’ (mentre non esiste una variante simile per ‘ha dato un libro’); e il

fatto che in italiano si possa usare la prima espressione al posto della seconda—

si potrebbe sostenere—è un accidente linguistico che non deve trarre in

inganno sul piano ontologico.

Ecco qualche altro esempio, scelto un po’ a caso dalla letteratura, in cui asserzioni

che sembrano fare riferimento a «entità sospette» (rispettivamente: le

differenze d’età, i buchi, i tavoli, le probabilità, i dati sensoriali, le virtù, le stelle

medie) vengono opportunamente parafrasate in maniera da evitare il riferimento15:

(8) C’è una differenza d’altezza tra Giovanni e Maria.

(8a) Giovanni e Maria non sono alti uguali.

(9) C’è un buco in quel pezzo di formaggio.

(9a) Quel pezzo di formaggio è bucato.

(10) In soggiorno c’è un tavolo.

(10a) In soggiorno vi sono delle particelle disposte-a-tavolo.

(11) Vi sono buone probabilità che Maria venga a cena.

(11a) È molto probabile che Maria venga a cena.

15 Gli esempi si ispirano, nell’ordine, a: White, 1956, pp. 68–69; Lewis e Lewis, 1970,

p. 4; Van Inwagen, 1990, p. 109; Burgess e Rosen, 1997, pp. 222–233; Ducasse, 1942, p.

233; Alston, 1958, p. 9; Melia, 1995, p. 224.

8

(12) Maria ha l’impressione di vedere una chimera.

(12a) Maria vede chimericamente.

(13) Vi sono molte virtù che Giovanni non ha.

(13a) Giovanni potrebbe essere molto più virtuoso di quanto non sia.

(14) La stella media ha 2.4 pianeti.

(14a) Ci sono 12 pianeti e 5 stelle, oppure 24 pianeti e 10 stelle, oppure...

Naturalmente vi sono anche casi in cui l’analisi va nella direzione opposta, risolvendosi

nell’introduzione piuttosto che nell’eliminazione di certe entità. È il

caso di (6a), che potrebbe essere considerato una parafrasi non solo di (6) ma

anche di (6b). (Negli anni Sessanta Donald Davidson ha fornito diversi argomenti

a favore di quest’analisi alternativa, secondo cui la forma logica degli enunciati

d’azione include una quantificazione sulle azioni stesse oltre che sugli

agenti.16) La direzione dell’analisi non è determinante dal punto di vista del metodo,

così come non è determinante l’inelegante eccentricità di certe parafrasi.

Ciò che conta è la loro perspicuità, ovvero che esse consentano di stabilire un

nesso chiaro tra le parole che usiamo e le cose di cui parliamo. L’eleganza, dice

qualcuno, possiamo lasciarla ai sarti e ai calzolai.

2. Problemi e distinzioni

Pur senza entrare nei dettagli, è bene a questo punto sottolineare che questo

approccio alla questione ontologica (e di conseguenza all’analisi metafisica) non

ha mancato di sollevare obiezioni anche profonde. Storicamente, la prima obiezione

risale proprio ai tempi di Russell ed è anche la più importante: ammesso

che la forma grammaticale di un enunciato possa essere fuorviante, quali sono i

criteri per decidere quando le cose stanno veramente così? E quali sono i canoni

rispetto a cui valutare l’adeguatezza di una parafrasi? La teoria russelliana delle

descrizioni era guidata dal desiderio di evitare qualunque riferimento a entità che

non fossero conoscibili per esperienza diretta, e in questo senso erano le convinzioni

ontologiche di Russell a guidarlo nella ricerca della forma logica, non già

viceversa. Questo significa però che un filosofo di diverse vedute potrebbe attribuire

agli enunciati in questione una forma logica diversa, o ritenere di non

dover affatto intervenire sulla loro forma grammaticale. E infatti un filosofo

come Meinong (per esempio) non aveva difficoltà ad accettare come buona la

16 Vedi i saggi raccolti in Davidson, 1980. Per ulteriori sviluppi vedi Parsons, 1990.

9

forma grammaticale di un enunciato come (1), perché per Meinong ‘il cavallo

alato’ (al pari di ogni altra espressione descrittiva, incluse descrizioni contraddittorie

come ‘il circolo quadrato’) designava un individuo di tutto rispetto, ancorché

non un individuo in carne ed ossa.17 Lo stesso discorso si applica in linea

di principio a tutti gli enunciati della lista (6)–(14). In breve, sia la scelta di

quali enunciati parafrasare sia la scelta di come parafrasarli è effettuabile solo a

fronte di specifici orientamenti filosofici. E se le cose stanno così allora la strategia

della parafrasi appare sospetta: il rasoio di Occam non sa più che cosa radere

e anziché liberare il linguaggio ordinario dai suoi trabocchetti ontologici si

corre il rischio di imporgli l’ontologia che uno preferisce.18

In tempi più recenti quest’obiezione ha dato luogo a un interessante dibattito

che ha trovato espressione in tre importanti distinzioni. La prima è la distinzione

tra una concezione «ermeneutica» e una concezione «rivoluzionaria»

delle parafrasi, distinzione che si può far risalire allo stesso Quine.19 Nel primo

caso la parafrasi di un enunciato ordinario mira a esibirne quella che i linguisti di

tradizione chomskyana chiamano la «struttura profonda»20: al di là delle apparenze

(e al di là di quanto possano pensare gli stessi parlanti), il vero significato

di un’asserzione del linguaggio ordinario è quello che traspare dalla sua parafrasi

canonica. Nella concezione rivoluzionaria, per contro, la parafrasi non restituisce

affatto il significato che si nasconde dietro la forma grammaticale (la «struttura

superficiale») dell’asserzione; non è nemmeno chiaro se l’asserzione abbia

di per sé un significato. Piuttosto, la parafrasi definisce il significato dell’asserzione,

ovvero ne fissa la struttura logica e di conseguenza la portata ontologica.

Ma lungi dal voler reinterpretare il linguaggio ordinario e imporgli surrettiziamente

un’ontologia, la parafrasi mira a correggere il linguaggio e a dotarlo di una

ontologia esplicita. In altre parole, mentre nella concezione ermeneutica la parafrasi

di un’asserzione A rivela il vero significato di A, nella concezione rivolu-

17 Vedi Meinong, 1904. Per un filosofo di queste vedute la domanda «Che cosa esiste?»

presenta quindi un’ulteriore ambiguità, a seconda di cosa si intenda per ‘esiste’: in un senso

stretto il cavallo alato non esiste ma in un senso lato esiste anche lui (Meinong direbbe che

«sussiste»). Se la questione ontologica viene intesa in questo secondo senso, allora non vi

sarebbe nulla di contraddittorio nel dire che esiste [in senso lato] qualcosa che non esiste [in

senso stretto]. Per un’elaborazione di questa posizione vedi per es. Parsons, 1980, e Routley,

1980.

18 L’epiteto ‘sospetta’ è usato a questo proposito da Kripke 1982, p. 56 tr. it., e la battuta

sul rasoio viene da Putnam, 1987, p. 74. Per una formulazione articolata di questa obiezione

vedi Marconi, 1979. Sulle sue ramificazioni rimando a Varzi, 2001, cap. 2.

19 Vedi Quine, 1960, §33. La terminologia però si deve a Burgess e Rosen, 1997.

20 Il testo di riferimento è Chomsky, 1957.

10

zionaria la parafrasi rivela solo il significato che si intende attribuire ad A. E se

la prima concezione sembra esporre il fianco all’obiezione citata sopra, la concezione

rivoluzionaria sembra del tutto legittima, se non addirittura necessaria.

La seconda distinzione degna di nota, introdotta da Strawson negli anni

Cinquanta e tuttora ampiamente accreditata, è quella tra concezione «descrittiva

» e concezione «revisionista» (o «correttiva») della metafisica, e quindi della

questione ontologica21. Nella prima concezione l’ontologia si accontenta di descrivere

«la struttura del nostro pensiero sul mondo», indipendentemente dalla

sua adeguatezza. (Dummett dirà che la filosofia non può fare di meglio che aiutarci

ad avere padronanza dei concetti di cui ci serviamo per pensare il mondo,

e quindi del modo in cui ci rappresentiamo il mondo; e siccome il linguaggio avrebbe

priorità sul pensiero, i fondamenti e il campo d’azione della metafisica

sarebbero definiti interamente dalla teoria del significato.22) Nella concezione

revisionista, invece, l’analisi ontologica dovrebbe produrre «una struttura migliore

», indipendentemente dalle rappresentazioni che possiamo darne nel nostro

pensiero e nel linguaggio che usiamo per esprimerci. Ora, per Strawson il

valore della metafisica descrittiva risiedeva nella sua modestia: una modestia di

origine kantiana, che si accontenta di studiare il mondo attraverso un’analisi

del nostro apparato concettuale. Tuttavia proprio questa modestia può a ben

vedere rivelarsi un’arma a doppio taglio nel momento in cui la descrizione riguarda

non già il pensiero o l’idioletto del singolo filosofo bensì l’apparato concettuale

o il linguaggio di un’intera comunità: la modestia diventa allora presunzione

ermeneutica e si finisce col ritrovarsi nella posizione discussa sopra. La

concezione revisionista della metafisica, per contro, è immodesta ma onesta.

Non mira a rivelare alcunché; mira semmai a correggere l’immagine del mondo

che troviamo codificata nel nostro apparato linguistico-concettuale, e come

tale si sposa naturalmente con la concezione rivoluzionaria del metodo analitico.

La terza e ultima distinzione è quella tra una concezione «assoluta» e una

concezione «relativa» dell’ontologia. Di nuovo, l’autore che ha dato l’impulso

iniziale alla riflessione su questi temi è Quine, che a cavallo tra gli anni Cinquanta

e Sessanta ha messo a punto una serie di importanti tesi di filosofia del linguaggio

che si traducono nella cosiddetta «imperscrutabilità» del riferimento.

Secondo queste tesi non ha senso chiedersi quale sia il riferimento di un’espressione

linguistica se non relativamente a un sistema di coordinate (il che a sua

21 Vedi soprattutto Strawson, 1959, e la discussione in Haack, 1979.

22 Vedi Dummett, 1991.

11

volta può essere solo chiarito rinviando a un altro sistema di coordinate: «‘Tavolo’

si riferisce ai tavoli», «Ma in che senso di ‘tavoli’?», e così via)23. E se le

cose stanno così, allora non ha neanche senso chiedersi quale sia in termini assoluti

l’impegno ontologico di una determinata asserzione o di una determinata

teoria. Ha solo senso chiederselo relativamente a un opportuno sistema di coordinate.

Di conseguenza, anche la ricerca della forma logica è da intendersi in

senso relativo. Un’enunciato come

(15) Questo è un tavolo

può necessitare di una parafrasi che ne riveli la portata ontologica in termini di

particelle subatomiche (per esempio) piuttosto che di artefatti macroscopici:

(15a) Questo è un aggregato di particelle disposte-a-tavolo.

Ma può anche non richiedere alcuna parafrasi se nella lingua del parlante ‘tavolo’

significa aggregato di particelle disposte-a-tavolo. E siccome non c’è modo

di stabilirlo una volta per tutte, vi è un senso molto importante in cui la

stessa questione ontologica ha senso soltanto relativamente a una teoria di

sfondo e a un opportuno «manuale di traduzione». Naturalmente possiamo

sempre dire che nella nostra lingua ‘tavolo’ si riferisce ai tavoli, qualunque cosa

essi siano.24 Ma a questo punto resta da stabilire che si parli effettivamente la

stessa lingua, e quindi la relatività non scompare.

L’enfasi sulla dimensione relativa della questione ontologica si ritrova in

molti altri filosofi che a partire dagli anni sessanta hanno fortemente influenzato

il dibattito su questi temi, da Nelson Goodman (non ha senso chiedersi che cosa

esista indipendentemente dal nostro modo di «vedere e costruire» il mondo) a

Hilary Putnam (gli «oggetti» non esistono indipendentemente dagli «schemi

concettuali») sino a quegli autori che stentano a identificarsi col paradigma della

filosofia analitica, come Richard Rorty.25 Che si accetti o meno questa forma di

relativismo, sembra indiscutibile che l’approccio analitico alla questioni ontologiche

non ambisce a restituire un inventario del mondo che vada bene per tutti.

L’analisi logica può contribuire a superare dei disaccordi apparenti ma non può

garantire un affiatamento assoluto. A questo si aggiunge, come vedremo, il fatto

che un accordo sull’ontologia non comporta automaticamente un accordo metafisico.

Quand’anche ci si trovasse in sintonia sulla forma logica di un enunciato

23 Vedi soprattutto i saggi raccolti in Quine, 1968.

24 Cfr. Quine, 1990, p. 52.

25 Vedi ad es. Goodman, 1978, Putnam, 1981, e Rorty, 1979.

12

che asserisce l’esistenza dei tavoli (per esempio) si potrebbe dissentire sulla

natura dei tavoli. E a questo punto il discorso si fa propriamente metafisico.

III - Gli oggetti materiali

Che cos’è un tavolo? Supponiamo di trovarci d’accordo nel classificare un tavolo

come un oggetto materiale, o concreto (a differenza per esempio degli

schiaffi o delle virtù, che la maggior parte dei filosofi aggiudicherebbe a categorie

metafisiche diverse). Ma che cos’è un oggetto materiale? In che cosa si distingue

da altre entità come gli eventi o le proprietà? Storicamente l’atteggiamento

dei filosofi analitici nei confronti di questo interrogativo è stato incostante e

possiamo distinguere due fasi principali.

1. La centralità della nozione di oggetto

Durante una prima fase, durata approssimativamente sino al termine degli anni

Sessanta, pochi si ponevano l’interrogativo in maniera esplicita e articolata. La

preoccupazione principale era di fare chiarezza su tutto il resto (schiaffi e virtù

ma anche numeri, pensieri, dati sensoriali, colori, e via dicendo, non di rado allo

scopo di «eliminare» queste entità dall’inventario ontologico piuttosto che di

chiarirne la natura metafisica) mentre lo statuto dei comuni oggetti materiali era

dato per scontato. Ayer parlava genericamente di «oggetti familiari» e Austin di

«articoli da emporio di modeste dimensioni»26, ed è significativo che la principale

opera di consultazione di stampo analitico—gli otto volumi dell’Encyclopedia

of Philosophy di Paul Edwards27—non contenesse nemmeno la voce ‘oggetto’

(o la voce ‘cosa’). L’eccezione più significativa a questo atteggiamento

diffuso è costituita da Strawson, il cui Individui del 1959 aveva come obiettivo

principale proprio la chiarificazione (in una prospettiva di metafisica descrittiva)

della centralità della nozione di oggetto materiale. Per Strawson gli oggetti

sono dei particolari, e in ciò evidentemente si differenziano dalle proprietà intese

come universali. Ma gli oggetti sono, inoltre, caratterizzati dal fatto di essere

estesi nello spazio e duraturi nel tempo, e accessibili agli strumenti di osservazione

di cui disponiamo (e quindi da noi identificabili e reidentificabili). In questo

senso gli oggetti si differenzierebbero anche da altri particolari, come gli eventi,

che sono estesi nel tempo come nello spazio, e che non risultano identifi-

26 Vedi rispettivamente Ayer, 1940, p. 2 e Austin, 1962, p. 23 tr. it

27 Edwards, 1967.

13

cabili se non a partire dagli oggetti stessi che vi partecipano. In effetti il contributo

principale di Strawson è stato proprio quello di aver per primo cercato di

chiarire quest’ultima differenza, evidenziando il nesso di dipendenza asimmetrica

che sembra sussistere tra le due categorie ontologiche sulla base di considerazioni

perfettamente in linea con lo spirito analitico illustrato nella sezione

precedente. Strawson osserva infatti che sebbene un’asserzione come (16) implichi

logicamente la (17):

(16) x è un tavolo

(17) C’è un evento che è la fabbricazione di x,

quest’ultima asserzione ammette una parafrasi in cui l’evento della fabbricazione

non viene direttamente chiamato in causa:

(17a) x è stato fabbricato.

(Vedi ancora il nesso tra (6a) e (6b).) Quindi l’ammissione nel nostro discorso

dei tavoli, intesi come oggetti materiali, non comporta una corrispondente ammissione

delle loro fabbricazioni, intese come eventi: i primi non dipendono

concettualmente (e quindi per Strawson nemmeno ontologicamente) dai secondi.

Per contro, è anche vero che un’asserzione come (18) implica la (19):

(18) x è una fabbricazione

(19) C’è un oggetto di cui x è la fabbricazione

ma quest’ultima asserzione non sembra ammettere parafrasi di sorta. Quindi

l’ammissione nel nostro discorso delle fabbricazioni sembra comportare in maniera

irriducibile l’ammissione di un corrispondente numero di tavoli e altri fabbricati,

intesi come oggetti materiali.

La forza dell’argomento varia, naturalmente, a seconda della portata (ermeneutica

o rivoluzionaria) che si attribuisce alla parafrasi.28 Qui ci preme sottolineare

soprattutto come Strawson si accontenti di lavorare con una nozione di

oggetto in cui le caratteristiche di estensione spaziale e di durata temporale vengono

assunte come primitive e, in certa misura, saldamente ancorate all’intuizione.

Tuttavia proprio queste caratteristiche nascondono insidie e difficoltà di

non poco conto. Si pensi al tradizionale rompicapo della nave di Teseo di cui

narrava Plutarco29, che per rimanere nell’esempio del tavolo potremmo riformulare

nei termini seguenti: che cosa giustifica la nostra intuizione secondo cui

28 Tra i critici dell’argomento di Strawson vedi Moravcsik, 1968, e Tiles, 1981.

29 Vite Parallele, Teseo 23.1.

14

il tavolo con cui abbiamo a che fare rimane lo stesso a dispetto dei continui

cambiamenti qualitativi ai quali è sottoposto? Supponiamo che al trascorrere

del tempo alcune parti del tavolo si stacchino e vengano sostituite con parti

nuove. In ciascun caso il cambiamento è minimo e tale da giustificare la nostra

intuizione (possiamo immaginare che il tavolo sia di vimini e che le parti sostituite

siano così piccole da rendere impercettibili le variazioni). Tuttavia al termine

del processo il cambiamento è radicale: possiamo ancora dire di avere

quello stesso tavolo da cui siamo partiti? Per complicare la situazione possiamo

supporre che le cose vadano come suggeriva Hobbes: man mano che le parti

iniziali si staccano, un amico le raccoglie e le ricompone nell’ordine originale.30

Se immaginiamo che il processo porti alla sostituzione di tutti i pezzi di cui è

composto il tavolo iniziale, x, ci ritroveremo alla fine con due tavoli: uno composto

interamente di pezzi nuovi, ma legato a x da un nesso di continuità qualitativa

e spazio-temporale che sembra giustificare l’intuizione per cui si tratta

comunque del medesimo tavolo, e uno composto interamente dai pezzi originali,

simile in tutto e per tutto a x, e quindi a sua volta tale da giustificarne

l’identificazione con x. È chiaro tuttavia che due tavoli non possono essere identici

a un tavolo, e quindi ecco che l’idea secondo cui il tavolo è un’entità che

persiste nel tempo dà origine a un dilemma: quale dei due tavoli è x?

Anche l’idea secondo cui il tavolo è esteso nello spazio—e più in generale

l’idea per cui gli oggetti materiali sarebbero «gli occupatori di spazio primari»,

nelle parole dello stesso Strawson31—dà luogo a dilemmi di vecchia data.32 Sia

y una piccola parte del tavolo x, sia z la parte rimanente, e supponiamo che a un

certo istante, t, la parte y si stacchi da z. Siccome y è veramente piccola e insignificante,

l’intuizione sembrerebbe suggerire che a partire da t il tavolo x coincida

con z, cioè con la parte rimanente. Tuttavia prima di t il tavolo non coincideva

con z ma includeva z fra le sue parti proprie. Quindi eccoci di nuovo dinnanzi

a un rompicapo: o affermiamo che dopo l’istante t gli oggetti x e z coincidono

ma non sono identici (contrariamente all’intuizione secondo cui due oggetti

non possono occupare contemporaneamente lo medesima regione di spazio),

o affermiamo che prima dell’istante t gli oggetti x e z sono identici pur non

coincidendo (contrariamente all’intuizione secondo cui uno stesso oggetto non

può occupare contemporaneamente due regioni di spazio), oppure accettiamo

30 De corpore, xi.7.

31 Strawson, 1959, p. 49 tr. it.

32 Si è soliti attribuire il rompicapo seguente a un sophisma di Guglielmo di Sherwood

(cfr. Syncategoremata, 6) ma se ne trova traccia già negli stoici: vedi Sedley, 1982.

15

di rivedere qualche altro principio che sembra governare le nostre intuizioni

concernenti l’identità degli oggetti materiali ma che evidentemente non è del tutto

compatibile con la loro caratterizzazione in termini di meri «occupatori di

spazio».

2. Il tridimensionalismo

Non appena si torna a riflettere su interrogativi come questi, la nozione di oggetto

materiale che sembrava semplice e primitiva si rivela problematica, non

meno di altre nozioni che potrebbero a prima vista sembrare più oscure e controverse

come quelle di evento o di proprietà. E proprio su questi interrogativi

che a partire dalla fine degli anni Sessanta—e questa è la seconda fase alla quale

si alludeva sopra—si è aperta una discussione molto intensa e approfondita che

ha portato all’elaborazione di diverse teorie metafisiche sulla natura degli oggetti

materiali. Semplificando un po’ possiamo distinguere tre teorie principali. La

prima, che si dichiara amica del senso comune, tiene fede all’intuizione strawsoniana

per cui gli oggetti sono entità tridimensionali estese nello spazio ma

non nel tempo. Le altre due teorie corrispondono invece a una concezione

«quadridimensionalista» (secondo la quale gli oggetti materiali sono estesi anche

nel tempo) e a una loro concezione «sequernzialista» (secondo la quale gli oggetti

materiali sono per la maggior parte costruzioni fittizie).

David Wiggins è forse il rappresentante più significativo della concezione

tridimensionalista e il suo libro Sameness and Substance può a buon diritto

considerarsi il principale contributo alla letteratura.33 La tesi sottostante è che

ogni cosa sia un qualcosa, cioè un’entità di qualche tipo, e che sia proprio il

tipo di appartenenza a determinarne le condizioni di identità nello spazio e nel

tempo. Due tavoli non possono occupare contemporaneamente una medesima

regione di spazio, sostiene Wiggins; ma due oggetti di tipo diverso sì, un po’

come due istituzioni di tipo diverso (lo stato di Amburgo e la città di Amburgo)

possono avere esattamente le stesse coordinate spaziali. Lo stesso Locke, nel

formulare per la prima volta il principio intuitivo che lega l’identità alla coincidenza

spazio-temporale, si era preoccupato di relativizzare l’identità a entità

dello stesso tipo.34 E se accettiamo questa relativizzazione il secondo rompicapo

citato sopra si dissolve immediatamente: x è un tavolo ma z non lo è, poiché

33 Vedi Wiggins, 1980. Una prima versione di questo libro era apparsa come Wiggins,

1967. Una terza versione è apparsa come Wiggins, 2001.

34 Saggio, ii-xxvii-17.

16

nell’introdurre ‘z’ abbiamo fatto esplicitamente riferimento a una parte propria

di x (e nessuna parte propria di un tavolo è a sua volta un tavolo). Non solo: z

non diventa un tavolo nemmeno dopo la separazione del pezzettino y, poiché

secondo la teoria in esame il tipo di appartenenza definisce una caratteristica

essenziale, che nessun oggetto può perdere o acquisire nel corso della propria

esistenza. Quindi x e z sono oggetti di tipo diverso. E di conseguenza non ci

sarebbe nulla di strano nell’ammettere che entrambi possano trovarsi a occupare

la stessa regione di spazio. Quanto al primo rompicapo—quello dell’identità

attraverso il cambiamento—la risposta fornita dalla teoria è che il tavolo iniziale

debba essere identificato con quello che di mano in mano si ottiene sostituendo

i pezzi che si staccano. Il motivo, per Wiggins e per gli altri filosofi di queste

vedute35, non è solo che in questo caso viene rispettato il principio della «continuità

spazio-temporale»: viene rispettato anche un principio di «uniformità

sortale» che si esprime, appunto, nell’essenzialità del tipo di appartenenza.

Siccome pochi pezzi provenienti da un tavolo non sono sufficienti a formare un

tavolo (ammesso che formino qualcosa), dal punto di vista di questa teoria è

evidente che il tavolo ottenuto ricomponendo i pezzi staccati comincia a esistere

soltanto a un certo punto, quando si saranno uniti un numero sufficiente di

pezzi. Quindi quel tavolo non può essere identico al tavolo iniziale. Per contro,

il tavolo che continua a subire modificazioni continua a essere un tavolo, cioè

ricade sotto lo stesso tipo durante tutte le fasi della propria esistenza, e quindi

non c’è difficoltà a stabilire un nesso di identità tra quel tavolo e il tavolo iniziale

da cui ha avuto inizio l’intero processo.

3. Il quadridimensionalismo

Ovviamente, il problema principale che questa prima teoria degli oggetti si trova

a dover affrontare riguarda la nozione di «tipo» alla quale fa riferimento in

maniera così determinante. Quali sono i tipi in cui si suddividono gli oggetti?

Esistono indipendentemente dalle parole che usiamo o sono una emanazione del

nostro apparato linguistico-concettuale? Posto che non ogni predicato della lingua

italiana corrisponde a un tipo (sarebbe sorprendente se il linguaggio fosse

così aderente alla realtà), in base a quali criteri è possibile effettuare una selezione?

E via dicendo. Una seconda teoria muove proprio da perplessità di questo

genere e si risolve nell’abbandono della tesi per cui gli oggetti sarebbero en-

35 Altri rappresentanti del punto di vista in esame includono ad es. Lowe, 1989 e 1998,

Oderberg, 1993, e Rea, 1998.

17

tità tridimensionali. Se per Strawson e Wiggins gli oggetti persistono nel tempo

in quanto permangono nel tempo, pur al variare delle proprie qualità, per questa

seconda teoria—che affonda le radici in autori come Whitehead e come gli

stessi Russell e Quine, ma che ha trovato piena espressione soprattutto a opera

di filosofi come John Smart, David Lewis, e Mark Heller36—la persistenza degli

oggetti non è altro che la loro estensione nel tempo: essi persistono in quanto

si protraggono nel tempo. Seguendo una terminologia che risale a Johnson si è

soliti dire che nel primo caso (teoria tridimensionalista) gli oggetti sono dei

«continuanti» mentre nel secondo caso (teoria quadridimensionalista) gli oggetti

sono degli «occorrenti», un po’ come gli eventi.37 I continuanti persistono in

quanto continuano a esistere: essi sono sempre presenti nella loro interezza in

tutti gli istanti di tempo in cui esistono, e un’asserzione di identità diacronica

come

(20) Il tavolo che stamani era in soggiorno è lo stesso tavolo che stasera è

in cucina.

afferma l’identità numerica di un continuante che esiste (interamente) in un certo

momento in un certo luogo e un continuante che esiste (interamente) in un

altro momento in un altro luogo. Gli occorrenti invece persistono in quanto le

loro parti si susseguono nel tempo, un po’ come le parti di un fiume si susseguono

nello spazio: essi non sono mai interamente presenti (fatto salvo il caso

limite di oggetti istantanei), e un’asserzione come (20) equivale ad asserire

l’identità di un occorrente le cui parti mattutine si trovano in un certo luogo e

un occorrente le cui parti serali si trovano in un altro luogo. Per molti filosofi

questa teoria è controintuitiva e non manca chi l’ha definita un vero e proprio

«pantano metafisico», o addirittura una «metafisica folle»38 Ma non manca

nemmeno chi ha sottolineato la maggiore adeguatezza della teoria quadridimensionalista

rispetto all’immagine che proviene dalle scienze fisiche. In particolare,

l’idea per cui gli oggetti sono entità a quattro dimensioni trova un certo

supporto nel linguaggio della teoria speciale della relatività, dove proprietà

temporali come «prima di adesso» non presentano in linea di principio caratteristiche

diverse da proprietà spaziali come «a est di qui», e dove la nozione

36 Vedi ad es., nell’ordine, Whitehead, 1929, Russell, 1927, Quine, 1960, Smart, 1972,

Lewis, 1986, e Heller, 1990.

37 Johnson, 1924, cap. 7 (i termini inglesi sono ‘continuant’ e ‘occurrent’). La stessa

terminologia si ritrova in Broad, 1933, pp. 138 sgg.

38 Cfr. Hacker, 1982, p. 4, e Thomson, 1983, p. 210.

18

stessa di «simultaneità» perde di significato. (Se la simultaneità delle parti spaziali

è relativa—dirà il quadridimensionalista—non ha senso dire di un oggetto

che è interamente presente in un determinato momento.)

Una volta che si accetti la teoria quadridimensionalista, non è difficile vedere

come entrambi i rompicapi discussi sopra trovino una soluzione immediata.

In quanto oggetti quadridimensionali, il tavolo x e l’oggetto z che si ottiene da x

rimuovendone una piccola parte y sono distinti e non c’è difficoltà ad affermare

che il primo include propriamente il secondo: z è una parte spazio-temporale di

x poiché a ogni istante di tempo in cui esistono entrambi, le parti spaziali di z

sono incluse (e a un certo punto coincidono) con le parti spaziali di x. Quindi a

partire dall’istante t diremo che z si trova a occupare esattamente la stessa regione

di spazio del tavolo intero, x, ma questo non è un problema e non comporta

moltiplicazioni ontologiche di sorta, non più di quanto non sia un problema

dire che a partire da un certo punto (nei pressi di Vigevano) la parte lombarda

del Ticino viene a coincidere con il fiume nella sua interezza. Questo risolve

il secondo rompicapo. Quanto al primo—quello ispirato alla nave di Teseo—

la soluzione della teoria quadridimensionale è fondamentalmente deflazionista:

chiedersi quale tra i due tavoli finali sia da identificarsi col tavolo iniziale,

e su quali basi, sarebbe una domanda mal posta. Se intendiamo parlare delle fasi

terminali di due occorrenti, allora è chiaro che entrambi vanno distinte dal tavolo

di partenza, comunque lo si voglia costruire. Se invece intendiamo parlare

dei due oggetti nella loro interezza quadridimensionale—due occorrenti che alla

fine del processo sono a forma di tavolo ma che hanno parti temporali molto

diverse—allora il problema è eminentemente semantico: a quale di questi due

oggetti ci riferiamo quando parliamo del tavolo iniziale? Presumibilmente le nostre

pratiche linguistiche suggeriscono di favorire il primo, cioè quello le cui

parti temporali intermedie sono legate fra loro da un robusto nesso di continuità

e similarità, e che condividono l’importante proprietà di essere tutte a forma di

tavolo (le parti temporali del secondo oggetto, quello ottenuto ricomponendo i

pezzi man mano che si staccano dal primo, non godono di questa proprietà se

non verso la fine del processo). Tuttavia questa preferenza non avrebbe mordente

metafisico: entrambi gli oggetti farebbero parte del mondo, entrambi avrebbero

una propria storia e una propria identità, e l’unica differenza risiederebbe

nella nostra propensione a selezionarne uno quale referente di una determinata

espressione linguistica, in questo caso la descrizione ‘il tavolo’. In effetti

è abbastanza comune tra i quadridimensionalisti non porre alcuna restrizione

19

sul novero degli occorrenti ammissibili: in linea di principio ogni regione di spazio-

tempo—«per quanto sconnessa e irregolare», precisava Quine39—può corrispondere

a qualcosa, sebbene alcuni occorrenti siano più omogenei di altri e

per questa ragione occupino una posizione di maggior rilievo nella nostra vita

quotidiana e nel nostro sistema linguistico. Per un quadridimensionalista le differenze

ci sono ma sono, appunto, di ordine cognitivo o di natura pragmatica,

non metafisica. (Resterebbe da decidere se distinguere o meno tra questi occorrenti,

intesi come oggetti, e gli eventi che hanno luogo nelle medesime regioni.

Come ha osservato Hugh Mellor40, Churchill intitolò il resoconto autobiografico

della propria giovinezza My early life, non Early me, ma per un quadridimensionalista

che non voglia ammettere entità interamente co-localizzate la differenza

tra i due titoli potrebbe essere di natura puramente stilistica.)

4. Il sequenzialismo

Tra i vari problemi che la teoria quadridimensionalista si trova ad affrontare vi è

certamente quello di fare chiarezza su questa importante questione: fino a che

punto i rompicapi di cui si occupa la metafisica degli oggetti materiali sono in

realtà problemi attinenti esclusivamente alla sfera semantica (o cognitiva in senso

lato)? Una volta ammessa un’ontologia in cui ogni regione spazio-temporale

corrisponde a un’entità, c’è ancora spazio per disquisizioni genuinamente metafisiche

o si tratta semplicemente di fare chiarezza sul nostro apparato linguistico-

concettuale, sul nesso semantico che unisce queste parole ad alcune di quelle

entità? In questo senso, benché a prima vista il quadridimensionalismo rifletta

una concezione della metafisica decisamente poco descrittiva, vi è un senso

profondo in cui la si può considerare una teoria molto vicina allo spirito della

filosofia analitica.

Veniamo così alla terza importante teoria intorno alla quale si è sviluppato

un ampio dibattito a partire dalla fine degli anni Sessanta. Si tratta di una concezione

degli oggetti che in un certo senso giace a metà strada tra la concezione

tridimensionalista e quella quadridimensionalista e che potremmo denominare

«teoria sequenzialista». Secondo questa teoria—la cui formulazione più articolata

risale a Person and Object di Chisholm41—quelli che chiamiamo tavoli (per

esempio) non sono propriamente entità persistenti nel tempo e quindi i rompi-

39 Quine, 1960, p. 212 tr. it

40 Mellor, 1998, p. 86.

41 Chisholm, 1976.

20

capi da cui siamo partiti non sorgono. Tanto per cominciare, per un filosofo di

quest’orientamento quando parliamo di un tavolo stiamo semplicemente parlando

di particelle disposte-a-tavolo. (Se volessimo esprimerci in forma canonica,

dovremmo quindi servirci di parafrasi come quelle esemplificate dalla coppia

(10) e (10a).) In secondo luogo, quando instauriamo un legame di identità diacronica

tra ciò chiamiamo ‘questo tavolo’ in due diverse circostanze, o tra i referenti

di due descrizioni definite marcate temporalmente come ‘il tavolo che

stamani era in soggiorno’ e ‘il tavolo che stasera è in cucina’, dobbiamo distinguere

tra una nozione «stretta e filosofica» di identità e una nozione «ampia e

popolare».42 Nel primo senso l’asserzione di identità è molto probabilmente

falsa, poiché è molto probabile che ci si stia riferendo a due diversi aggregati di

particelle (qualche molecola si è staccata; qualche altra si è aggregata). Nel secondo

senso l’asserzione di identità può essere vera, ammesso che sussistano i

richiesti legami di continuità e omogeneità di cui abbiamo già parlato con riferimento

alle altre teorie; ma in tal caso non si tratterebbe di un’identità effettiva

in quanto le entità di cui si sta parlando non sono entità reali. Si tratterebbe

piuttosto di costruzioni fittizie costituite da «sequenze» di entità reali—

sequenze di particelle disposte-a-tavolo. Si tratterebbe di entia successiva la

cui omogeneità interna attrae la nostra attenzione al punto da indurci a identificarne

i membri attribuendo loro un’identità individuale quando in realtà abbiamo

a che fare con entità diverse, un po’ come diversi sono a ben vedere gli

aggregati di persone che costituiscono una squadra di calcio in momenti successivi

della sua storia (senza che ciò ci induca a cambiare continuamente il nome

della squadra) o gli aggregati di puntini illuminati che sullo schermo cinematografico

corrispondono all’immagine di un cavallo in corsa (senza che ciò ci impedisca

di parlarne come di una stessa immagine che si sposta). Per un filosofo

sequenzialista queste sequenze di aggregati non vanno incluse in un inventario

del mondo, anche se spesso è proprio a queste entità fittizie che intendiamo

riferirci col pensiero o con le parole. (Come scriveva Reid, quando le alterazioni

sono graduali si continua a usare lo stesso nome e a trattare cose diverse come

se fossero una cosa sola, perché il linguaggio «non può permettersi un nome

diverso per ogni stato diverso».43) Di conseguenza i due rompicapi di cui abbiamo

parlato non sarebbero che la manifestazione di un’inevitabile tensione

che viene a crearsi quando mescoliamo inopportunamente l’immagine «stretta e

filosofica» del mondo con l’immagine «ampia e popolare» alla quale facciamo

42 Vedi Chisholm, 1969.

43 Saggi, III.iii.ii.

21

riferimento nelle nostre pratiche quotidiane.

Possiamo distinguere tra forme moderate e forme estreme di sequenzialismo,

a seconda che si voglia applicare questo punto di vista soltanto a oggetti

come i tavoli e le squadre di calcio (degli artefatti) o anche ad altri oggetti più

«naturali», animali e persone incluse. Chisholm optava per una posizione moderata

ma in tempi più recenti non mancano filosofi, come Ted Sider, che non

esitano a difendere posizioni anche molto radicali.44 (Viene spontaneo instaurare

un’analogia tra i due sensi di identità del sequenzialista e la distinzione tra

«identità fittizia» e «identità reale» su cui aveva insistito Hume.45) Possiamo

inoltre distinguere diverse varianti a seconda che si voglia riconoscere diritto di

cittadinanza soltanto alle particelle—o a qualunque cosa svolga funzioni analoghe—

oppure anche ai loro aggregati: non gli aggregati diacronici corrispondenti

agli entia successiva bensì gli aggregati di cui le particelle sono parti spaziali,

indipendentemente dalla loro configurazione geometrica (oggi disposte a formare

un tavolo, domani sparse dappertutto). Chisholm optava per la seconda posizione

ma vi sono autori più recenti, come Peter Van Inwagen e Trenton Merricks,

che preferiscono la prima opzione fatto salvo per quegli aggregati che costituiscono

«entità viventi».46 Infine possiamo distinguere due varianti a seconda

che le particelle stesse (e nel caso anche i loro aggregati) siano intese come

entità tridimensionali o quadridimensionali. Chisholm la pensava nel primo modo

ma altri filosofi, come Hud Hudson47, preferiscono identificarsi con la seconda

posizione.

5. Oltre le teorie

Questi esempi dovrebbero essere sufficienti per fornire un quadro dell’intenso

dibattito che ha caratterizzato la seconda fase della riflessione filosofica sullo

statuto degli oggetti materiali. A questo punto è solo il caso di sottolineare che

la rivalità tra le diverse alternative—tridimensionalismo, quadridimensionalismo,

varie forme di sequenzialismo—si fa particolarmente interessante proprio

nel momento in cui il problema di render conto dello statuto e delle condizioni

di identità degli oggetti materiali si salda col problema di render conto della metafisica

delle persone e delle loro condizioni di identità e persistenza nel tempo.

44 Vedi Sider, 2001.

45 Trattato, i.iv.6.

46 Vedi Van Inwagen, 1990) e Merricks, 2001.

47 Hudson, 2001.

22

Per molti filosofi è questo il test fondamentale con cui valutare l’adeguatezza di

una teoria metafisica degli oggetti alla luce dei suoi costi e benefici, indipendentemente

dalla natura descrittiva o correttiva della teoria: un conto è rivedere alcune

nostre intuizioni sui tavoli e sul nostro concetto di tavolo; altro conto è

mettere in discussione l’intuizione quando si tratta della nostra stessa identità e

del nostro stesso persistere nel tempo. Su questo tema, e sulle sue complesse

ramificazioni in campo etico, politico, e psicologico, il dibattito tra i filosofi

analitici è oggi più aperto che mai.48

IV - Le proprietà

Per molti filosofi il mondo non consiste solo di oggetti materiali. Altre entità

vanno incluse affinché si possa render conto della verità di certe asserzioni e di

certe teorie sul mondo. Anche il filosofo di convinzioni naturaliste può ritenere

necessario adottare una metafisica che non riduca il mondo al mondo naturale,

per esempio perché può ritenere che le verità delle scienze fisiche dipendano

dalle verità della matematica, che a loro volta sembrano dipendere dall’esistenza

di entità astratte come i numeri o gli insiemi. Come già si è ricordato, questo era

l’orientamento dello stesso Quine e corrisponde a una posizione piuttosto diffusa

tra i naturalisti contemporanei.49 Ma se il dibattito sulla natura delle entità

astratte della matematica ha occupato una posizione di assoluto rilievo nel panorama

dell’ontologia e della metafisica analitica, ancora più centrale e in certa

misura paradigmatico è stato il dibattito su quelle entità astratte che sembrano

essere chiamate in causa ogni volta che facciamo un’asserzione sul mondo: entità

che corrisponderebbero non già al termine in posizione di soggetto di un enunciato

elementare bensì al termine in posizione di predicato. Quando per esempio

facciamo un’affermazione come

(21) Il tavolo è rosso

non stiamo semplicemente parlando del tavolo, altrimenti il valore di verità

della nostra asserzione sembrerebbe dover coincidere con quello di una qualunque

altra affermazione che si riferisce a quell’oggetto, fra cui affermazioni come

(22) Il tavolo è verde

48 Vedi i capitoli ‘Etica’ e ‘Filosofia della mente’ inclusi nel presente volume.

49 Sul naturalismo in metafisica vedi Hughes, 1998.

23

con le quali (21) è incompatibile. Di che cos’altro stiamo parlando? E che relazione

sussiste tra il tavolo e quest’altra cosa dalla quale sembra dipendere la

verità della nostra asserzione?

1. Il problema degli universali

Nella storia della filosofia questi interrogativi sono noti come il «problema degli

universali» e risalgono almeno a Platone. Tra i filosofi analitici il problema è

paradigmatico proprio di quella «barba di Platone» di cui si parlava in apertura,

ed è su questa barba che il «rasoio di Occam» si è spuntato più spesso. (Esiste

ovviamente un problema analogo e più generale nel caso degli enunciati relazionali,

ma ci limiteremo per semplicità al caso degli enunciati in forma soggettopredicato.

Sempre per ragioni di semplicità assumeremo anche che gli enunciati

in questione siano effettivamente in questa forma, aggirando del tutto le complicazioni

discusse in relazione all’analisi russell-quineana.)

Possiamo distinguere tre principali correnti di pensiero. Secondo la prima—

la corrente realista, o platonista—l’analisi di enunciati come (21) e (22)

richiede che venga effettivamente postulata l’esistenza di un’entità corrispondente

al termine in posizione di predicato, un’entità che viene letteralmente

«predicata» dell’entità corrispondente al termine in posizione di soggetto (o di

cui l’entità corrispondente al termine in posizione di soggetto «partecipa», nella

terminologia del Parmenide50). E siccome l’entità postulata è la stessa ogni volta

che viene usato il predicato, indipendentemente dal soggetto di cui la si predica

e indipendentemente dall’ubicazione spazio-temporale di quest’ultimo (il

tavolo ha lo stesso colore del tappeto), per il realista ne segue che abbiamo a

che fare con una proprietà universale e non con un individuo particolare. La seconda

corrente di pensiero è quella nominalista, cosiddetta perché si identifica

con la tesi per cui le espressioni che figurano in posizione predicativa non sono

altro che «nomi» (intesi come nomi comuni, cioè parole che si applicano a una

pluralità di individui particolari, piuttosto che come nomi propri di proprietà

universali). Per alcuni nominalisti i predicati non fanno altro che registrare certe

nostre convenzioni linguistiche; per altri i predicati si applicano alle cose particolari

in virtù di una oggettiva somiglianza di queste ultime. In entrambi i casi,

il nominalista nega che per rendere conto delle condizioni di verità di enunciati

come (21) e (22) occorra chiamare in causa delle entità in più rispetto a quelle

cui si applica (o non si applica) il predicato. La terza corrente di pensiero è tal-

50 Cfr. Platone, Parmenide, 130e–131a.

24

volta considerata una variante della posizione nominalista, ma può essere assegnata

a una posizione intermedia tra il realismo e il nominalismo. Secondo questa

corrente di pensiero—che chiameremo particolarista—esistono effettivamente

delle entità corrispondenti ai predicati; ma queste entità non sono degli

universali bensì dei particolari. Per un particolarista esse sono il genere di cose

che Leibniz aveva chiamato «accidenti individuali» e che in tempi più recenti

Donald Williams ha denominato «tropi»: sono dei particolari astratti che in un

certo senso «caratterizzano» i particolari concreti a cui si applicano—e niente

altro.51

2. Il nominalismo

Nell’ambito della filosofia analitica, la corrente realista è stata sicuramente dominante.

Da Frege a Russell, da Strawson a Bergmann, da Armstrong a Mellor,

la tesi per cui i predicati (o certi predicati) devono corrispondere a universali di

qualche tipo è stata fatta propria da filosofi anche molto diversi fa loro, e sulla

base di considerazioni molteplici.52 Per esempio, accanto alla necessità di spiegare

le condizioni di verità di enunciati elementari come (21) e (22), la posizione

realista ha comunemente trovato supporto nell’osservazione che il linguaggio ci

consente di parlare esplicitamente delle proprietà, come quando diciamo

(23) Il rosso è un colore.

E comunemente si è insistito anche sulla necessità di garantire un fondamento

oggettivo e non convenzionale alle affinità che riscontriamo fra quelle cose a cui

si applica (o si potrebbe applicare) un medesimo predicato. Che cosa hanno in

comune il tavolo e il tappeto quando diciamo che entrambi sono rossi, se non la

proprietà di essere rossi?

Gli aspetti più originali e innovativi del dibattito analitico sul problema degli

universali si possono tuttavia apprezzare meglio concentrandosi sulle teorie

sviluppate dai filosofi appartenenti alle altre due correnti di pensiero, i nominalisti

e i particolaristi, e sulle loro reazioni alle argomentazioni e osservazioni

critiche dei filosofi realisti. Cominciando dai primi, possiamo individuare due

fasi principali nel nominalismo analitico del Novecento. La prima fase trova la

sua espressione più significativa in un articolo di Goodman e Quine del 1947,

51 Vedi rispettivamente Leibniz, Nuovi saggi, IV.vi.42, e Williams, 1953.

52 Vedi ad es. Frege, 1891; Russell, 1912, capp. 9 e 10; Strawson, 1954; Bergmann,

1954; Armstrong, 1978; Mellor, 1991.

25

che muovendo dalla dichiarazione «Non crediamo nelle entità astratte» proponeva

un metodo sistematico per «farne a meno» attraverso opportune parafrasi

in cui ogni enunciato che sembra chiamare in causa un universale (per limitarci

al nostro caso) è sostituito da un enunciato in cui si parla solo di oggetti particolari.

53 Per esempio, nel caso di un enunciato come (23) il riferimento esplicito

al colore rosso potrebbe essere evitato attraverso una parafrasi in cui si parla

solo di oggetti rossi:

(23a) Le cose rosse sono colorate.54

Quanto poi alle condizioni di verità di quest’ultimo enunciato, come pure di

enunciati elementari quali (21) e (22), la posizione del filosofo nominalista rappresentata

da Goodman e Quine è semplicemente che non occorre postulare

alcuna entità corrispondente al termine in posizione di predicato. Si può fare

un’affermazione della forma

(24) x è così e cosà

senza che ciò debba dipendere dall’esistenza di un universale in virtù del quale

x è così e cosà: x è così e cosà e basta (è «un fatto fondamentale e irriducibile»,

dirà Quine l’anno successivo55).

Questa strategia è stata molto criticata. Non solo in certi casi la parafrasi si

rivela laboriosa (e inelegante) al punto da rendere necessaria la messa a punto di

un laborioso apparato concettuale. Per esempio, un enunciato come

(25) Ci sono più gatti che cani

veniva analizzato da Quine e Goodman come

(25a) Ogni individuo che contiene un pezzo di ogni gatto è più grande di

un individuo che contiene un pezzo di ogni cane,56

con la conseguente necessità di chiarire la complessa teoria delle parti e dell’intero

che le parafrasi presuppongono57. La critica principale è che le parafrasi in

questione, ancorché complesse e sofisticate, sono generalmente inadeguate, po-

53 Goodman e Quine, 1947. Le citazioni sono dalla prima pagina.

54 Questo particolare formato non compare tra i casi considerati da Goodman e Quine,

ma vedi per es. Quine, 1960, p. 155 tr. it., per un trattamento esplicito.

55 Quine, 1948, pp. 11–12 tr. it.

56 Goodman e Quine, 1947, p. 278 tr. it.

57 È il «calcolo degli individui» di Leonard e Goodman, 1940.

26

sto che l’adeguatezza di una parafrasi possa misurarsi almeno in parte con la

sua accettabilità intuitiva. (Anche un nominalista rivoluzionario vorrebbe sottoscrivere

questo criterio.) Pur limitandosi al caso di un semplice enunciato come

(23), l’inadeguatezza emerge dal fatto che le condizioni di verità della parafrasi

proposta non riescono a catturare appieno il significato dell’enunciato stesso.

Si noti infatti che (23a) è vero se e solo se è vero

(26) Le cose rosse sono estese nello spazio.

E se Berkeley aveva ragione possiamo aggiungere che (23a) è vero se e solo se è

vero anche

(27) Le cose estese nello spazio sono colorate.58

Ma ovviamente questo non significa che il rosso sia un’estensione, e nemmeno

che l’estensione sia un colore.59

Il metodo suggerito da Quine e Goodman non è però il solo metodo disponibile

ai filosofi di orientamento nominalista. Se parafrasi deve essere, non è

detto che la parafrasi debba procedere eliminando le proprietà a favore dei proprietari.

L’alternativa più significativa a questa linea di condotta corrisponde

alla seconda fase del nominalismo analitico, che nei primi anni Sessanta trova la

sua espressione più caratteristica in una serie di lavori di Wilfrid Sellars60. Sellars

prende molto sul serio l’idea medievale per cui i predicati sono soltanto dei

nomi. E quando si tratta di parafrasare enunciati come (23), in cui sembra che

questi nomi vengano usati per riferirsi a qualcosa piuttosto che per registrare

delle convenzioni linguistiche (o dei fatti «fondamentali e irriducibili»), Sellars

propone una strategia completamente diversa da quella di Goodman-Quine. Per

Sellars la parafrasi deve chiamare in causa non già le cose rosse bensì l’aggettivo

‘rosso’. In prima approssimazione si potrebbe ricorrere a qualcosa come

(23b) ‘Rosso’ è un predicato-di-colore,

dove ‘predicato-di-colore’ è da intendersi come un’etichetta che registra una

convenzione della nostra comunità linguistica. Tuttavia questa analisi non considererebbe

il fatto ovvio che comunità linguistiche diverse si avvalgono di convenzioni

diverse: la traduzione di (23) in inglese ne conserva le condizioni di

58 Princìpi, I, §10.

59 L’obiezione risale a Prior, 1967, p. 146. Vedi anche Jackson, 1977, e Loux, 1998,

pp. 62–69, per ulteriori complicazioni.

60 Vedi soprattutto Sellars 1960 e 1963.

27

verità, ma la traduzione di (23b) risulta inadeguata in quanto la parola fra virgolette

non appartiene al vocabolario inglese. Inoltre l’analisi consentirebbe di

«fare a meno» della proprietà corrispondente al termine ‘rosso’ al costo di un

impegno ontologico altrettanto problematico dal punto di vista nominalista—

l’impegno nei confronti della parola ‘rosso’. Le parole sono entità astratte,

entità che ricorrono in un’ampia gamma di iscrizioni particolari anche molto

diverse fra loro, dagli scarabocchi su un foglio di carta ai tratti di gesso su una

lavagna sino agli eventi sonori prodotti da un apparecchio radiofonico. Per un

realista questo non è un problema. Ma per il nominalista queste cose non ci sono:

esistono soltanto le iscrizioni particolari (i «tokens» di cui parlava Peirce61)

non le parole che in esse ricorrono (i «types»). Quindi adottando una parafrasi

come (23b) gli universali cacciati dalla porta rientrerebbero dalla finestra. La

proposta di Sellars consente di aggirare entrambi questi problemi. Basta munirsi

di un dispositivo sintattico che consenta di fare riferimento non già ai types di

una determinata lingua (come nel caso delle comuni virgolette di citazione) ma ai

tokens corrispondenti. E poiché questi tokens sono oggetti concreti al pari dei

tavoli,62 basta assicurarsi che il dispositivo sintattico consenta di riferirsi a tutti

i tokens indipendentemente dalla lingua di riferimento: proprio come il predicato

italiano ‘tavolo’ si applica a tutti i tavoli di questo mondo (in virtù di una

loro irriducibile affinità oggettiva o semplicemente in conseguenza di un complesso

insieme di convenzioni linguistiche), possiamo immaginare di dotarci di

un predicato che si applichi a tutti i tokens della parola ‘rosso’ e delle sue traduzioni

in tutte le altre lingue. Nella fattispecie, Sellars propone di costruire il

predicato in questione racchiudendo l’espressione linguistica tra virgolette speciali,

per esempio tra due puntini. Otteniamo così

(23c) I ·rosso· sono dei predicati-di-colore,

dove ‘predicato-di-colore’ è ora da intendersi come un’etichetta che registra non

solo le convenzioni della nostra comunità linguistica ma anche quelle delle altre

comunità. E questa parafrasi aggira tanto i difetti di (23b) quanto quelli dell’alternativa

iniziale (23a).

3. Il particolarismo

61 Cfr. Peirce, 1906.

62 Il nominalista materialista avrà qualche problema con quei tokens che si ottengono

proiettando delle ombre o incidendo una superficie: vedi Casati e Varzi, 1994.

28

Non è il caso qui di addentrarci in una valutazione di questa proposta. È più

importante sottolineare come in entrambe le fasi dell’approccio nominalista il

problema degli universali si trasforma in problema eminentemente ontologico, e

aggirato di conseguenza. Tra le varie motivazioni per questo atteggiamento vi

era del resto la convinzione che si debba fare a meno degli universali anche in

considerazione della mancanza di chiari criteri concernenti le loro condizioni di

identità, in particolare le condizioni sotto cui risulta lecito identificare la proprietà

corrispondente a un dato predicato f e la proprietà corrispondente a un

altro predicato, y. E soprattutto in seguito agli influenti argomenti di Quine, la

disponibilità di un criterio di identità preciso è stato generalmente considerato

dai filosofi analitici un requisito preliminare per l’impegno ontologico nei confronti

di entità di qualsiasi tipo: «Niente entità senza identità»63.

Come già accennato, tuttavia, l’eliminativismo nominalista non costituisce

l’unica alternativa di rilievo alla posizione realista. Una seconda è quella che

abbiamo chiamato particolarista, che nega l’esistenza degli universali pur accettando

l’intuizione secondo la quale i predicati designano effettivamente delle

entità astratte. Per un particolarista essi designano dei particolari astratti, o

tropi64, ovvero entità che potendoci esprimere nel gergo del realista potremmo

caratterizzare come «esemplificazioni» o «istanze» di corrispondenti entità universali.

Se il tavolo è rosso è perché possiede una caratteristica ben precisa; e

se anche il tappeto è rosso allora anche il tappeto possiede una caratteristica

analoga. Ma il rosso del tavolo e quello del tappeto non sono la stessa cosa:

sono due rossi distinti precisamente perché sono posseduti da due oggetti distinti,

un po’ come la mia copia dei Buddenbrook è distinta da quella del mio

vicino. Il rosso del tavolo è posseduto esclusivamente dal tavolo e si trova esattamente

dove si trova il tavolo; quello del tappeto è posseduto esclusivamente

dal tappeto e si trova esattamente dove si trova il tappeto. Per il realista questi

due rossi sono esemplificazioni di un rosso universale e immanente. Per il particolarista

esse sono gli unici rossi di cui abbia senso parlare.

A differenza della posizione nominalista, la concezione particolarista è genuinamente

metafisica e non si sottrae al confronto diretto con la teoria reali-

63 Il motto risale a Quine, 1958, p. 55 tr. it. Si tratta peraltro di un punto di vista che

non tutti condividono: vedi ad es. Strawson, 1976, e Jubien, 1996.

64 Il termine «tropo» sta oggi prendendo il sopravvento, ma sino a qualche tempo fa la

terminologia era molto varia: alcuni autori parlavano di «qualità particolarizzate» (Strawson,

1959, p. 138n tr. it.), altri di «particolari perfetti» (Bergmann, 1967, § 5), altri ancora di «proprietà-

unità» (Matthews e Cohen, 1968) o «casi» (Wolterstorff, 1970).

29

sta.65 Williams, che per primo ha dato pienamente corpo alla teoria, sosteneva

addirittura che i tropi costituiscono l’«alfabeto dell’essere»66, nel senso che tutte

le altre entità sarebbero costituite a partire da insiemi di tropi individuali: i

comuni oggetti materiali non sarebbero altro che aggregati di tropi (il rosso del

tavolo, la sua densità, la sua rotondità, e così via) e anche le proprietà potrebbero

essere costruite alla stregua di aggregati di tropi (il rosso del tavolo, quello

del tappeto, quello del pomodoro, e così via). È difficile immaginare a una tesi

più marcatamente metafisica, e metafisicamente revisionista. Tuttavia anche per

Williams e per gli autori che sono seguiti (Campbell, Bacon, e Mertz sono alcuni

fra i nomi più rappresentativi67) il metodo analitico occupa una posizione

centrale nell’elaborazione e chiarificazione della teoria. Per un teorico dei tropi

asserire che il tavolo è rosso non significa asserire un fatto irriducibile e fondamentale

riguardante il tavolo, come vorrebbe il nominalista, e non significa nemmeno

asserire che il tavolo esemplifica un vero e proprio universale, come vorrebbe

il realista. Per un particolarista asserire che il tavolo è rosso significa asserire

che il tavolo e il rosso (inteso come universale) hanno un tropo in comune:

il rosso del tavolo. Asserire un enunciato come (21) significa quindi, in ultima

analisi, asserire un enunciato esistenziale:

(21a) Il rosso del tavolo—quel particolare rosso—esiste.

Ed asserire un enunciato come (23) significa asserire un enunciato universale

sulla falsariga di:

(23d) Data una qualunque cosa x, se il rosso di x esiste—quel particolare

rosso—allora è il colore di una parte di x—quel particolare colore.

Anche in questo caso, dunque, l’analisi ontologica si aggancia saldamente

all’analisi logica e la proposta metafisica, di stampo dichiaratamente revisionista,

si traduce in un revisionismo linguistico senza mezzi termini (a sua volta di

stampo preferibilmente rivoluzionario).

65 Alcuni autori (per es. Goodman, 1956) identificano il nominalismo con la dottrina secondo

cui esistono soltanto entità particolari, e in questo senso il particolarismo può considerarsi

una forma di nominalismo. Tuttavia il contrasto con le teorie nominaliste illustrate sopra

permane.

66 Williams, 1953, p. 5. La prima articolazione della teoria dei tropi (terminologia a parte)

si trova già in Stout, 1921, 1923, che tuttavia non si spinge a tanto.

67 Vedi ad es. Campbell, 1990, Bacon, 1995, e Mertz, 1996. Vedi anche la teoria dei

«truth-makers» di Mulligan et al., 1984.

30

V - Conclusione

I problemi e le teorie di cui abbiamo parlato sono tutt’altro che esaustivi

dell’ampia gamma di tematiche che definiscono l’orizzonte della metafisica analitica.

Soprattutto negli ultimi anni si può dire che i filosofi analitici si siano occupati

di tutte le principali questioni di metafisica di cui è costellata la storia

della filosofia—la natura degli oggetti materiali e delle proprietà ma anche

l’identità personale, la causalità, il libero arbitrio e il determinismo, la vaghezza

ontologica, lo statuto delle entità matematiche e degli oggetti fittizi, la metafisica

dello spazio e del tempo, il relativismo, l’essenzialismo, la natura della necessità.

Sarebbe incongruo pensare di fornire in poche pagine un quadro esauriente

di questa varietà e ricchezza di temi. Tuttavia gli esempi considerati dovrebbero

consentire di ricostruire almeno alcune importanti coordinate—sia nei

metodi sia nei contenuti—che hanno contraddistinto l’approccio analitico alla

metafisica, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento. Concludiamo

dunque con due osservazioni di ordine molto generale.

La prima è proprio che la metafisica e l’ontologia occupano ormai una posizione

di primo piano nel panorama della filosofia analitica. Dopo un periodo

iniziale forzatamente limitato e all’insegna del disincanto e della chiarificazione

concettuale piuttosto che della ricerca in senso stretto, negli ultimi anni si è assistito

a una vera e propria impennata di popolarità e la produzione filosofica

in questo settore è stata più proficua che mai. È difficile spiegare le ragioni di

questa linea di tendenza. Ma si può almeno osservare che il metodo analitico ha

contribuito a togliere la metafisica dal piedistallo sulla quale era stata collocata

dalla filosofia dell’Ottocento, restituendola a quel dominio di interrogativi che

costituiscono parte integrante del vasto processo col quale cerchiamo di dare un

ordine al mondo che ci sta intorno e a cui siamo soliti far riferimento quando

parliamo e quando pianifichiamo le nostre azioni. Il che non significa che questi

interrogativi abbiano perso di spessore e di profondità. Al contrario: il compito

di «effettuare le giuste scansioni della realtà», come si diceva qualche tempo fa,

presenta trabocchetti che risultano tanto più insidiosi e interessanti quanto più

si cerca di confrontarsi con quel senso comune che per il filosofo analitico costituisce

sempre e comunque un imprescindibile punto di riferimento.

La seconda osservazione riguarda la natura stessa di quest’impresa. Come

abbiamo visto, il metodo analitico è costantemente in bilico tra una sua interpretazione

in chiave «ermeneutica» e un’interpretazione «rivoluzionaria». È

un’opposizione che si presenta in ogni dominio d’indagine filosofica, ma in metafisica

si associa saldamente a un’altra distinzione importante, che abbiamo

31

identificato con l’opposizione tra la concezione «descrittiva» e la concezione

«correttiva» o «revisionista». Si tratta di concezioni molto diverse, a meno che

non si supponga che i nostri concetti siano miracolosamente strutturati a immagine

e somiglianza del mondo, e sicuramente la scelta tra una concezione e

l’altra costituisce un importante motivo di riflessione (come lo è la scelta tra

una concezione relativista e una concezione realista della metafisica). Ebbene, in

un certo senso l’opposizione riguarda il delicato confine tra questioni puramente

semantiche e questioni metafisiche vere e proprie. Se ci affidiamo alle implicazioni

di un certo modo di parlare corriamo il rischio di perderci nei trabocchetti

della grammatica o nell’indeterminatezza delle nostre intuizioni, e sembra

necessario andare oltre il linguaggio; d’altra parte non è chiaro nemmeno come si

possa stilare un «inventario del mondo» se non partendo dalle nostre intuizioni

e dalle nostre pratiche linguistiche, quelle pratiche che in fin dei conti abbiamo

messo a punto proprio per parlare di noi e del mondo che ci sta intorno. Per

ogni filosofo questo dilemma deve costituire un importante scrupolo sul piano

metodologico. Per un filosofo analitico si tratta del dilemma col quale la pratica

filosofica deve confrontarsi quotidianamente.

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37

Bibliografia ragionata

In metafisica la letteratura di orientamento analitico è quasi esclusivamente disponibile

in lingua inglese. Cominciando dalle opere a carattere generale, esiste

una buona scelta sia di testi introduttivi sia di opere a carattere enciclopedico

o antologico, per la maggior parte pubblicati nell’ultimo decennio. Tra i primi,

Contemporary Metaphysics di M. Jubien (Blackwell, Oxford, 1997) può

essere un buon punto di partenza: è di agevole lettura e copre tutti i temi principali,

anche se la scelta di evitare del tutto i riferimenti bibliografici rende

quest’opera poco utile per chi volesse proseguire nello studio. Più rigoroso e

approfondito, e ben documentato, è Metaphysics: A Contemporary Introduction,

di M. J. Loux (Routledge, Londra, 1998; seconda edizione 2002). Non è

sempre di lettura facile e si limita ad alcune tematiche (essenzialmente quelle

discusse in questo capitolo, oltre a una sezione sulla natura della necessità e una

sulle proposizioni e altre entità astratte) ma consente comunque di farsi un

buon quadro dello stato dell’arte. Più esaustivi, ma meno approfonditi, sono

The Elements of Metaphysics, di W. R. Carter (Temple University Press, Philadelphia,

1990), Metaphysics di R. Taylor, ormai giunto alla quarta edizione

(Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1992), e A Survey of Metaphysics di E. J.

Lowe (Oxford University Press, Oxford, 2002), mentre il volume di P. van Inwagen,

Metaphysics (Westview Press, Boulder, CO., 1993), è sicuramente molto

approfondito e ben documentato—come ci si può attendere da uno dei nomi

più discussi e influenti degli ultimi anni—ma può risultare deludente proprio

per la parzialità dei temi trattati. Altri validi testi a carattere introduttivo, anche

se un po’ più datati, sono Metaphysics: A Contemporary Introduction di J. F.

Post (Pergamon Press, New York, 1991), Metaphysics: An Introduction di B.

Carr (Humanities Press International, Atlantic Highlands, 1987), Metaphysics:

The Elements di B. Aune (University of Minnesota, Minneapolis, 1985), e

Metaphysics di D. W. Hamlyn (Cambridge University Press, Cambridge, 1984).

Anche Metaphysics: Methods and Problems di G. N. Schlesinger (Barnes &

Noble, Totowa, NJ, 1983) è ormai un po’ datato; si tratta però di un testo tuttora

stimolante che si distingue per l’approccio originale, basato su un continuo

confronto tra i temi e i metodi della metafisica (disamina concettuale, analisi

logico-linguistica, esperimenti mentali) e quelli delle scienze empiriche. Infine, il

38

volume di Q. Smith e N. L. Oaklander Time, Change and Freedom: An Introduction

to Metaphysics (Routledge, Londra, 1995) è un testo singolare nell’impostazione

(che ruota intorno al tempo come tema unificante dei problemi della

metafisica) ma sufficientemente ad ampia copertura e corredato da un buon apparato

bibliografico e di guida all’approfondimento. Tra i pochi testi disponibili

in lingua italiana, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica di A. C.

Varzi (Carocci, Roma, 2001) copre alcuni tra i temi maggiormente dibattuti negli

ultimi anni, enfatizzando soprattutto il problema del delicato confine tra

questioni semantiche e questioni metafisiche vere e proprie, mentre La metafisica

negata. Logica, ontologia, filosofia analitica di M. Marsonet (Angeli, Milano

1990) può essere utile soprattutto per una ricostruzione degli aspetti critici

che hanno caratterizzato l’approccio della filosofia analitica all’ontologia e

alla metafisica.

Anche per i testi a carattere enciclopedico e antologico esiste un’ampia

selezione. Tra i primi segnaliamo i due volumi dell’Handbook of Metaphysics

and Ontology, a cura di H. Burkhardt e B. Smith (Philosophia Verlag, Monaco,

1991), e A Companion to Metaphysics, a cura di J. Kim e E. Sosa (Blackwell,

Londra, 1989). Quest’ultimo si abbina a una conveniente e ricca antologia curata

degli stessi Kim e Sosa (Metaphysics: An Anthology, Blackwell, Londra,

1999), che contiene una cinquantina di ristampe in versione integrale. L’antologia

migliore però è la monumentale Analytical Metaphysics curata da M. Tooley

(Routledge, Londra, 1999). L’opera è in cinque volumi (acquistabili separatamente)

così suddivisi: 1. Leggi di natura, causalità, e supervenienza; 2. Tempo

e causalità; 3. Teorie realiste, nominaliste e particolariste delle proprietà; 4. I

particolari e il problema dell’identità nel tempo; 5. Necessità e possibilità. Peccato

che manchi un volume o una sezione dedicata alla questione ontologica, che

avrebbe reso l’opera incomparabile per completezza. Tra gli altri testi antologici

che raccolgono la ristampa di importanti articoli di ontologia e metafisica analitica,

il volume Contemporary Readings in the Foundations of Metaphysics

curato da S. Laurence e C. Macdonald (Blackwell, Oxford, 1998) si distingue

per l’inclusione di diversi buoni contributi di rassegna dello stato dell’arte nei

principali ambiti di indagine (impegno ontologico, mondi possibili, proprietà e

universali, tropi, oggetti materiali, eventi, entità matematiche), mentre Metaphysics:

Contemporary Readings, a cura di S. Hales (Wadsworth, Belmont,

CA, 1998), si distingue sia per le ottime sezioni introduttive (scritte da autori

di primo piano) sia per il taglio originale (vi sono sezioni dedicate a tematiche

non trattate in questo capitolo quali la teoria delle parti, i particolari dipendenti,

le qualità secondarie). Da segnalare inoltre Metaphysics: The Big Questions, a

39

cura di P. van Inwagen e D. W. Zimmerman (Londra, Blackwell, 1998), che raccoglie

54 testi (anche se non tutti in versione integrale), e Metaphysics: Contemporary

Readings, a cura di M. J. Loux (Routledge, Londra, 2002), che bene

si affianca al citato testo introduttivo dello stesso autore. Per avere il polso del

dibattito e delle tendenze più recenti può anche essere utile consultare i due

volumi della serie Philosophical Perspectives dedicati alla metafisica (n. 10 del

1996 e n. 15 del 2001, entrambi editi da J. Tomberlin e pubblicati da Blackwell,

Oxford), il doppio numero speciale della rivista Erkenntnis dedicato alla metafisica

analitica (vol. 48 del 1998, nn. 2-3, a cura di E. Rungalddier e C. Kanzian),

e il volume Individuals, Essence, and Identity. Themes of Analytic Metaphysics, a

cura di A. Bottani, M. Carrara, e D. Giaretta (Kluwer, Dordrecht, 2001), che

raccoglie gli atti di un convegno internazionale tenutosi a Bergamo nel giugno

del 2000 (in effetti, il primo convegno di metafisica tenutosi in Italia sotto gli

auspici della Società Italiana di Filosofia Analitica). Infine, per chi volesse una

sintesi schematica ma puntuale degli sviluppi più recenti si raccomanda la lettura

del compendio di K. Mulligan su “Métaphysique et ontologie” (nel Précis de

philosophie analytique curato da P. Engel, Presses Universitaires de France, Parigi,

2000).

Veniamo ai temi specifici. Cominciando dalla questione ontologica, le letture

obbligate sono “On Denoting” di B. Russell (Mind, XIV, 1905, pp.

479–493; tr. it. nel volume La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi,

Bompiani, Milano, 1973) e “On What There Is” di W. V. O. Quine (Review

of Metaphysics, II, 1948, pp. 21–38; tr. it. nel volume di Quine Il

problema del significato, Ubaldini, Roma, 1966). Accanto a questi testi si

raccomanda la lettura del saggio di W. Alston “Ontological Commitments”

(Philosophical Studies, IX, 1958. pp. 8–17), che bene evidenzia l’arma a doppio

taglio che si nasconde nel metodo della parafrasi, e dell’articolo di P. Van

Inwagen “Meta-ontology” (Erkenntnis, XLVIII, 1998, pp. 233–250), che meglio

di ogni altro fa chiarezza sulla distinzione tra il quesito ontologico «Che

cosa esiste?» e il quesito metodologico «Che domanda si pone domandando

‘Che cosa esiste?’?». Sulle parafrasi e la questione ontologica si consiglia inoltre

la lettura del piccolo gioiello di D. K. Lewis e S. R. Lewis, “Holes” (Australasian

Journal of Philosophy, XLVIII, 1970, pp. 206–212), scritto in forma di

dialogo tra un filosofo realista disposto a riconoscere l’esistenza di entità immateriali

(come i buchi in una fetta di formaggio) e un filosofo nominalistamaterialista

deciso a «farne a meno». Tra la letteratura secondaria, un testo ormai

classico è Ontologie und logistische Analyse der Sprache di G. Küng

(Springer-Verlag, Vienna, 1963; edizione inglese riveduta e ampliata, Reidel,

40

Dordrecht, 1967): per quanto obsoleto negli obiettivi e circoscritto nei contenuti,

resta ancora uno studio molto utile sul piano della ricostruzione storica.

Sempre di taglio storico, ma meno obsoleto e a copertura più ampia, è il libro di

J. Dejnozka, The Ontology of the Analytic Tradition and Its Origins (Rowman

& Littlefield, Lanham, Londra, 1996). La lettura di questo volume può essere

integrata con quella dell’ultimo capitolo della monografia di F. Toccafondi,

L’essere e i suoi significati (Il Mulino, Bologna, 2000), che ha un taglio ancora

più introduttivo e che completa il panorama percorrendo anche la storia degli

ultimi decenni. Infine, sulle questioni più strettamente teoriche attinenti alla

tematica dell’«impegno ontologico» è disponibile in italiano il volume di M.

Carrara, Impegno ontologico e criteri d’identità. Un’analisi (CLEUP, Padova,

2001) che si consiglia anche per il ricco apparato bibliografico, mentre il saggio

di F. D’Agostini “Metaontologia: Perché l’ontologia analitica” (Aut Aut, giugno

2002) può essere utile a chi volesse approfondire il nesso tra gli studi di ontologia

in campo analitico e quelli di impostazione cosiddetta «continentale».

Sulla metafisica degli oggetti materiali, il testo fondamentale è Individuals

di P. F. Strawson (Methuen, Londra, 1959; tr. it. Feltrinelli/Bocca, Milano,

1978), che sostiene la centralità della nozione di oggetto da un punto di vista

di metafisica descrittiva. Altra lettura obbligatoria è Sameness and Substance

di D. Wiggins, che difende la concezione tridimensionalista degli oggetti

dagli apparenti paradossi legati al cambiamento e alla persistenza nel tempo.

Questo libro è stato estremamente influente e dibattuto negli anni successivi

alla pubblicazione e nel 2001 ne è uscita una nuova versione, interamente rivista

dall’autore alla luce di tali sviluppi (Sameness and Substance Renewed, Cambridge

University Press, Cambridge). Due altri testi fondamentali sono Person

and Object di R. M. Chisholm (Open Court, La Salle IL, 1976), che contiene la

presentazione definitiva della concezione sequenzialista degli oggetti materiali,

e Material Beings di P. van Inwagen (Cornell University Press, Ithaca NY,

1990), da molti considerato il più importante libro di metafisica degli anni Novanta,

in cui si difende una variante della concezione di Chisholm secondo la

quale i comuni oggetti materiali sono semplici artefatti e non hanno esistenza

propria. Per quanto riguarda invece la concezione quadridimensionalista si

raccomandano The Ontology of Physical Objects, di M. Heller (Cambridge

University Press, Cambridge, 1990) e Four-Dimensionalism, di T. Sider (Oxford

University Press, Oxford, 2001). Molti altri testi dedicati alla metafisica

degli oggetti materiali e alle loro condizioni di persistenza sono apparsi negli

ultimi anni; anziché darne il lungo elenco ci limitiamo a segnalare l’antologia di

M. C. Rea, Material Constitution: A Reader (Rowman & Littlefield, Lanham

41

MD, 1997), che oltre a raccogliere gli articoli più importanti apparsi sull’argomento

include anche un ampio capitolo introduttivo comprendente una dettagliata

rassegna della letteratura. Con particolare riferimento ai problemi

dell’identità nel tempo si possono inoltre consultare i libri di E. Hirsch The

Concept of Identity (Oxford University Press, Oxford, 1982) e di D. S. Oderberg

The Metaphysics of Identity over Time (Londra, Macmillan, 1993), mentre

Parts. A Study in Ontology, di P. M. Simons (Clarendon Press, Oxford, 1987), è

il principale testo di riferimento per la mereologia, ovvero la teoria delle parti

e dell’intero. Per una rassegna della letteratura più recente su questi temi si veda

inoltre “Recent Work on Identity over Time” di T. Sider (Philosophical Books,

XLI, 2000, pp. 81–89). È bene sottolineare che gran parte di questa letteratura

si aggancia in maniera indissolubile con quella sull’identità personale, non ultimo

perché diversi autori si riconoscono nella tesi materialista per cui le persone

sono oggetti materiali (o perché mirano a prendere le distanze da questa posizione).

Entriamo qui in un campo dove la letteratura è molto ricca. Limitandoci

ai testi a carattere introduttivo segnaliamo L’io e i suoi sé di M. Di Francesco

(Cortina, Milano, 1998), Identità e coscienza di D. Sparti (Il Mulino, Bologna,

2000), e la raccolta curata da A. Bottani e N. Vassallo, Identità personale: Un

dibattito aperto (Loffredo, Napoli, 2001). Un’altra buona monografia introduttiva

in inglese è quella di H. Noonan Personal Identity (Routledge, Londra,

1989), mentre chi volesse cominciare a leggere i testi più significativi non può

che partire dal libro di D. Parfit, Reasons and Persons (Clarendon Press, Oxford,

1984; tr. it. Milano, Il Saggiatore, 1989) da molti considerato tuttora il

libro più importante sull’argomento degli anni recenti. Un altro testo classico, al

quale si è ispirato lo stesso Parfit, è Problems of the Self di B. Williams (Cambridge

University Press, Cambridge, 1973). Infine, tra le numerose antologie si

segnalano quelle curate da J. Perry, Personal Identity (University of California

Press, Berkeley, 1975), da A. Rorty, The Identity of Persons (University of

California Press, Berkeley, 1976), da D. Kolak e R. Martin, Self and Identity:

Contemporary Philosophical Issues (Macmillan, New York, 1991), e dallo

stesso H. Noonan, Personal Identity (Aldershot, Dartmouth, 1993).

Sulle proprietà e il problema degli universali la letteratura tradizionale è

sterminata e quella in ambito analitico non è da meno. Per accostarsi alla tematica

può essere consigliabile partire da un testo introduttivo, per esempio Universals:

An Opinionated Introduction di D. M. Armstrong (Westview Press,

Boulder CO, 1989). Come dice il titolo, questo libro non è neutrrale rispetto

alle problematiche presentate—l’autore difende una forma di realismo scientifico—

ma può comunque costituire un ottimo punto di partenza. Un altro buon

42

testo a carattere introduttivo è Universals di J. P. Moreland (McGill-Queens

University Press, Montreal e Kingston, 2001), sebbene anche in questo caso

vada messo in conto l’orientamento dichiaratamente platonista dell’autore. In

alternativa, esistono numerose antologie che consentono di accostarsi al problema

degli universali partendo direttamente dai testi originali. Per quanto

riguarda i testi più classici (da Russell fino a Strawson) la raccolta più completa

in lingua italiana è quella di L. Urbani Ulivi, Gli universali e la formazione dei

concetti (Edizioni di Comunità, Milano, 1981) mentre in lingua inglese si consigliano

le antologie curate da M. J. Loux, Universals and Particulars: Readings

in Ontology (Doubleday, Garden City NY, 1970) e da C. Landesman, The

Problems of Universals (Basic Books, New York, 1971). Per i testi più recenti

si veda invece il volumetto Properties, a cura di D. H. Mellor e A. Oliver, (Oxford

University Press, Oxford, 1997). Per un quadro ancora più completo e

aggiornato si consiglia inoltre l’ottima rassegna dello stesso Oliver, “The Metaphysics

of Properties” (Mind, CV, 1996, pp. 1–80). Venendo agli approfondimenti,

la posizione realista o platonista trova la sua espressione in diversi

testi ormai classici, tra cui On Universals di N. Wolterstorff (University of

Chicago Press, Chicago, 1970), Substance and Attribute di M. J. Loux (Dordrecht,

Reidel, 1978), e soprattutto i due volumi di A Theory of Universals di D.

M. Armstrong (Cambridge University Press, Cambridge, 1978), forse l’opera

più importante pubblicata sull’argomento. La posizione nominalista non è

egualmente ben rappresentata in letteratura. I testi più rilevanti sono “Steps

Towards a Constructive Nominalism” di N. Goodman e W. V. O. Quine

(Journal of Symbolic Logic, XII, 1947, pp. 105–122; tr. it. nell’antologia di C.

Cellucci La filosofia della matematica, Laterza, Bari, 1967), “A World of Individuals”

dello stesso Goodman (in The Problem of Universals, con M. Bochenski

e A. Church, University of Notre Dame Press, Notre Dame, 1956, pp.

13–31; tr. it. nel citato volume di L. Urbani Ulivi), e “Abstract Entities” di W.

Sellars (Review of Metaphysics, XVI, 1963, pp. 627–671). Ma si tratta di testi

tecnici e molto specifici, ai quali non corrispondono opere a più ampio respiro.

Forse il miglior libro sul nominalismo à la Goodman-Quine è ancora Nominalistic

Systems di R. A. Eberle (Kluwer, Dordrecht, 1970), che però è di lettura

piuttosto impegnativa (la si può integrare con M. Gosselin, Nominalism and

Contemporary Nominalism, Kluwer, Dordrecht, 1990, che ha un taglio prevalentemente

espositivo), mentre per il nominalismo sellersiano ci si deve accontentare

di testi a carattere compilativo come quello di J. Seibt, Properties as

Processes. A Synoptic Study of Wilfrid Sellars’ Nominalism (Ridgeview Press,

Atascadero CA, 1990). Chi volesse accostarsi a queste posizioni da una pro43

spettiva un po’ diversa potrebbe anche considerare il libro di J. P. Burgess e G.

A. Rosen, A Subject with No Object (Oxford, Clarendon Press, 1997): si tratta

di un testo incentrato sulle prospettive del nominalismo in matematica (volto

cioè a riformulare il discorso matematico evitando il riferimento ai numeri e ad

altre entità astratte) ma la portata filosofica del materiale discusso va al di là del

caso particolare. In questo senso si raccomanda anche la lettura di Parts of

Classes di D. K. Lewis (Oxford, Blackwell, 1991). Venendo infine alla teoria

particolarista, il locus classicus è “The Elements of Being” di D. C. Williams

(Review of Metaphysics, VII, 1953, pp. 3–18 e 71–92), cui peraltro si deve

anche l’introduzione del termine ‘tropo’, ma una formulazione abbastanza

articolata della teoria si trova già in G. F. Stout, “Are the Characteristic of

Things Universal or Particular?” (Proceedings of the Aristotelian Society, Suppl.

Vol. III, 1923, pp. 114–122). Due altri testi importanti sono quelli di K. Campbell,

Abstract Particulars (Blackwell, Oxford, 1990), e di J. Bacon, Universals

and Property Instances (Blackwell, Oxford, 1995), mentre il volume di D. W.

Mertz, Moderate Realism and Its Logic (Yale University Press, New Haven,

1996), si distingue per lo sviluppo degli aspetti più tecnici della teoria particolarista,

soprattutto con riferimento agli aspetti di analisi logica e semantica.

Vi sono molti altri temi che contribuiscono a definire il dominio di interesse

della metafisica analitica e sui quali il dibattito si fa sempre più intenso. Anche

limitandosi alla letteratura essenziale è difficile fare giustizia a questa varietà e il

lettore è invitato a consultare le introduzioni generali citate in apertura. A titolo

indicativo ci limitiamo a segnalare alcune pubblicazioni rappresentative. Sulla

causalità: l’antologia di E. Sosa e M. Tooley, Causation (Oxford University

Press, Oxford, 1993), il numero speciale del Journal of Philosophy dell’Aprile

2000 (Volume XCVII, Numero 4) e, in italiano, le monografie di C. Pizzi Eventi

e cause (Giuffrè, Milano, 1997) e di F. Laudisa Causalità (Carocci, Roma,

1999, spec. cap. 4). Sugli eventi: la monografia di J. Bennett, Events and Their

Names (Carendon Press, Oxford, 1988) e l’antologia di R. Casati e A. C. Varzi,

Events (Aldershot, Dartmouth, 1996), di cui è disponibile anche una bibliografia

annotata sulla letteratura dal 1947 al 1997, Fifty Years of Events (Philosophy

Documentation Center, Bowling Green OH, 1997). Su libero arbitrio e

determinismo: le antologie di G. Watson Free Will (Oxford University Press,

Oxford, 1982) e di R. Kane Free Will (Blackwell, Oxford, 2001) e la monografia

di J. M. Fischer The Metaphysics of Free Will (Blackwell, Oxford, 1994). Sullo

statuto delle entità matematiche: oltre al citato testo di Burgess e Rosen, le

monografie di P. Maddy Realism in Mathematics (Clarendon Press, Oxford,

1990) e di M. Balaguer Platonism and Anti-Platonism in Mathematics (Oxford

44

University Press, Oxford, 1998). Sugli oggetti fittizi: le monografie di C. Crittenden,

Unreality (Cornell University Press, Ithaca NY, 1991) e A. L. Thomasson,

Fiction and Metaphysics (Cambridge University Press, Cambridge, 1999).

Sulla metafisica dello spazio e del tempo: l’introduzione di C. Ray, Time,

Space, and Philosophy (Routledge, Londra, 1991) e l’antologia di R. Le Poidevin

e M. MacBeath, The Philosophy of Time (Oxford University Press, Oxford,

1993). Sulla modalità: la vecchia ma tuttora autorevole antologia di M. J. Loux,

The Possible and the Actual (Cornell University Press, Ithaca NY, 1979), la

monografia di G. Forbes, The Metaphysics of Modality (Clarendon Press, Oxford,

1985), e il testo di D. K. Lewis The Plurality of Worlds (Londra, Blackwell,

1986), vero e proprio manifesto della concezione realista dei «mondi

possibili». Sull’essenzialismo: il saggio Naming and Necessity di S. A. Kripke

(apparso del 1973 e ristampato come libro dalla Harvard University Press nel

1980; tr. it di M. Santambrogio: Nome e necessità, Torino, Boringhieri, 1982).

Sull’essenzialismo: il volume XI dei Midwest Studies in Philosophy edito da P.

A. French, T. E. Uehling, e H. K. Wettstein (University of Minnesota Press,

Minneapolis, 1986), e la rassegna di M. Della Rocca “Recent Work on Essentialism”

(Philosophical Books, XXXVII, 1996, pp. 1–13 e 81–89). Infine,

sull’indeterminatezza ontologica: il libro di T. Parsons, Indeterminate Identity

(Oxford University Press, Oxford, 2000) e l’articolo di A. Bottani “Oggetti

vaghi e identità vaghe” (Atti del sesto convegno triennale della Società Italiana

di Logica e Filosofia delle Scienze, Rubbettino Editore, Cosenza, 2001, pp.

379–391).

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